
Negli anni ’80, l’Irpinia trovò riscatto e orgoglio in una squadra che fece tremare anche i colossi di Serie A
Chiedete a un appassionato quale sia stato il decennio d’oro del calcio italiano: quasi sempre vi parlerà degli anni Ottanta. Gli stadi pieni, i fuoriclasse stranieri, le sfide tra Falcão, Platini e Maradona. Ma anche ad Avellino, lontano dai riflettori delle grandi metropoli, quel calcio prese vita con intensità inaspettata.

Il vecchio Partenio, oggi intitolato ad Adriano Lombardi – capitano e simbolo dei Lupi, scomparso nel 2007 – divenne il cuore pulsante di un’epopea sportiva. Lo costruì, ironia del destino, Costantino Rozzi, lo stesso imprenditore che rese grande l’Ascoli, altra provinciale fiera e indomita.

Con quello stadio nuovo di zecca, a inizio anni ’70, iniziò la scalata dell’Avellino: dalla C alla B nel 1973, sotto la presidenza vulcanica di Antonio Sibilia. Poi, nel 1979, la storica promozione in Serie A firmata da Paolo Carosi. Un miracolo calcistico che univa tre piazze di provincia – Ascoli, Catanzaro e Avellino – destinate a entrare nella memoria del pallone italiano.
Ma fu la stagione 1980-’81 a diventare leggenda. In un’Irpinia ferita dal terremoto del 23 novembre, la squadra si trasformò in un simbolo di speranza. “C’era distruzione ovunque, ma la gente trovava forza nel calcio”, ha ricordato il capitano Salvatore Di Somma. Nacque allora la cosiddetta “legge del Partenio”: in casa, i Lupi non cadevano mai. Penalizzati di cinque punti per il calcioscommesse, riuscirono comunque a salvarsi all’ultima giornata, pareggiando contro la Roma di Liedholm.

Fu così per un decennio intero: il Partenio divenne una roccaforte. Da lì passarono futuri protagonisti come Tacconi e Vignola, talenti internazionali come Dirceu, Juary, Barbadillo, Schachner e Diaz. Ogni partita era un evento, ogni vittoria una festa di popolo. Anche i flop – come il greco Anastopoulos o il danese Skov – diventavano aneddoti di folklore cittadino.

Quando nel 1988 arrivò la retrocessione, con il peggior attacco del campionato e un solo punto di differenza dal Pescara, finì un’era. L’Avellino perse la Serie A proprio mentre la Federazione ridisegnava il torneo, condannandolo di fatto alla B.

Seguì un lento declino, fatto di contestazioni e rimpianti. Memorabile quella del 1992, quando i tifosi piantarono sedici croci sul campo, una per ogni giocatore, come simbolo di fine stagione. Allenatore era Ciccio Graziani, ex campione del mondo, lontano anni luce dai fasti di Spagna ’82.

Eppure, tra gloria e dolore, il Partenio resta un luogo di memoria collettiva. Anche nel ricordo tragico del 2003, quando perse la vita Sergio Ercolano, giovane tifoso napoletano. Perché quel campo, più di ogni altro, ha raccontato la passione, la rabbia e la poesia di un calcio che non c’è più.
Mario Bocchio