Quando c’era il Catania di Angelo Massimino: il presidente che parlava col cuore (e con gli strafalcioni)
Ott 16, 2025

Un presidente che sbagliava le parole ma non i sentimenti: sotto il vulcano, il calcio era passione vera

C’erano domeniche in cui il calcio non era ancora una scienza esatta, ma una faccenda di cuore, di urla sugli spalti e di polvere negli occhi. E a Catania, quel cuore aveva un nome e un volto: Angelo Massimino, il presidente con l’inconfondibile inflessione del Sud, la giacca aperta e lo sguardo che diceva “io ci credo”.

Massimino era il Catania. Il suo accento tagliava come la lava, le sue frasi diventavano proverbiali, i suoi strafalcioni leggendari. “Abbiamo perso per un rigore inesistente di fuori gioco”, diceva serio ai giornalisti, o annunciava ai microfoni che “quest’anno vinciamo il cappionato”. E la città rideva, ma di quella risata piena d’affetto che si riserva ai propri santi protettori.

Dietro le battute e i malintesi c’era un uomo vero, di quelli che facevano calcio con le mani e con la pancia. Uno che sapeva contare i soldi ma non risparmiava sul sogno. E che, quando gli dissero che nella sua squadra mancava “l’amalgama”, rispose con naturalezza: “E in che squadra gioca questo Amalgama? Lo compro subito!”.

In panchina con l’allenatore Egizio Rubino



Era così, Massimino. Diretto, ingenuo e furbo allo stesso tempo. Uno che amava il pallone più delle parole. Negli anni del suo Catania, sotto il sole accecante del Cibali, sono passati giocatori veri, che hanno lasciato un segno nel calcio italiano: Pietro Anastasi, il ragazzo di Catania che fece fortuna al Nord con la Juventus e l’Inter ma rimase sempre legato alla sua terra; Claudio Ranieri, elegante in campo e già con l’aria di chi un giorno avrebbe guidato le panchine del mondo; Walter Novellino, cuore e polmoni, simbolo di un calcio operaio e generoso. E poi il bomber Aldone Cantarutti.

E poi arrivarono i sogni sudamericani. Massimino volle portare il Brasile ai piedi dell’Etna: Pedrinho Vicençote, terzino sinistro del Vasco da Gama, convocato nella Seleção, piede educato e carattere difficile; e Luvanor, il centrocampista offensivo del Goiás, presentato dai giornali come “il nuovo Zico”. Una coppia di talento e promesse, accolta a Fontanarossa come due profeti del dribbling. Ma il calcio, si sa, non è solo samba e punizioni: la stagione finì male, e il Catania tornò giù, tra le lacrime di un presidente che non avrebbe mai smesso di crederci.

Perché Massimino era così: si arrabbiava, inveiva contro gli arbitri, confondeva i tempi verbali ma non sbagliava mai un’emozione. Difendeva i suoi giocatori come figli – “i miei ragazzi”, li chiamava – e li rimproverava come un padre del Sud che urla per affetto.

Il giorno dell’arrivo a Catania del brasiliano Luvanor



Con lui il Catania conobbe la Serie A e l’abisso delle retrocessioni, le gioie improvvise e le cadute rumorose. Ma soprattutto conobbe un modo di fare calcio che oggi sembra scomparso: fatto di strette di mano, di pranzi improvvisati, di discorsi accorati in dialetto.



Quando se ne andò, nel 1996, si chiuse un’epoca. Perché Massimino non era soltanto un presidente, ma un personaggio da commedia umana: mezzo Totò, mezzo Rocco Scotellaro, tutto cuore e follia. E ancora oggi, negli stadi di Sicilia, quando si nomina “u presidenti”, qualcuno sorride e dice: “Ah, se ci fosse ancora lui, con tutti i suoi strafalcioni!”,

Poi cala il silenzio, e un tifoso più anziano mormora: “Perché quelli, almeno, erano veri”.

Mario Bocchio

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