Il giorno in cui Puskás giocò per il Signa
Ott 15, 2025

Quando il più grande dei magiari vestì la maglia di una squadra dilettantistica toscana. Una storia di amicizia, esilio e pallone, nata tra i colpi dei carri armati e finita tra le colline di Firenze

Ci sono storie che non nascono per la gloria ma per la memoria, piccoli miracoli che sfuggono alle cronache ufficiali e restano sospesi, come un pallone che non vuole scendere. Quella di Ferenc Puskás e del Signa appartiene a questa categoria: un frammento dimenticato della grande epopea del calcio, un incontro tra un fuoriclasse in esilio e un paese che viveva di lavoro e passione.

Negli anni Cinquanta, Puskás era già leggenda. Capitano dell’Aranycsapat, la squadra d’oro ungherese, guidava un calcio fatto di bellezza e precisione, di geometrie e intuizioni. Aveva stregato l’Europa e umiliato l’Inghilterra a Wembley, segnato più di mille gol e vinto un oro olimpico. Ma nel 1956 la storia si mise di traverso.

Il presidente della FIGC Ottorino Barassi saluta con una stretta di mano Ferenc Puskás prima di Roma–Honvéd 3-2. A destra, assistono alla scena il capitano giallorosso Arcadio Venturi insieme ai compagni Luigi Giuliano e Giacomo Losi



A Budapest scoppiò la rivoluzione. I carri armati sovietici invasero le strade, la gente scese in piazza, e l’Ungheria smise di respirare. In quei giorni di fuoco, la Honvéd – la squadra militare dove giocava Puskás – si trovava in Spagna per la Coppa dei Campioni. Saputo dell’insurrezione, i giocatori decisero di non tornare. Fu un atto di ribellione, ma anche di dolore. Per la UEFA era diserzione, e la punizione arrivò rapida: due anni di squalifica per tutti.

Puskás aveva 29 anni e il mondo ai suoi piedi, ma di colpo si ritrovò senza patria, senza squadra, senza futuro. Viaggiò per l’Europa come un fantasma del calcio, finché trovò rifugio a Bordighera, sulla Riviera ligure. Lì viveva un esilio dolce e malinconico, tra il mare e il vento, allenandosi poco, ingrassando troppo, e sognando le voci di casa che non poteva più sentire.

Ogni tanto arrivavano emissari da Torino o Milano. Juventus e Milan lo corteggiavano in segreto, sperando in un ripescaggio, ma l’UEFA vigilava. Anche la Fiorentina si fece avanti: campione d’Italia e finalista di Coppa dei Campioni, voleva quel sinistro micidiale per scrivere un’altra pagina di gloria. A portare l’offerta fu un uomo dal cuore grande e dal sorriso toscano: Renato Bonardi.

La formazione del Signa con Puskás, il terzo da sinistra fra gli accosciati


Dirigente sportivo e appassionato, Bonardi capì subito che con Puskás non servivano contratti, ma amicizia. Tra i due nacque un legame sincero, fatto di chiacchiere, vino buono e rispetto reciproco. Quando Ferenc volle ricambiare la gentilezza, Bonardi ebbe un’idea folle: farlo giocare per la squadra del suo paese, il Signa, dilettanti che si allenavano accanto alla stazione, tra il rumore dei treni e l’odore della pioggia.

Era il 23 gennaio 1958. L’inverno toscano sapeva di fumo e nebbia, il campo era un pantano, ma la voce si era sparsa: “Gioca Puskás!”. Arrivarono contadini, ragazzi, curiosi da Empoli, Firenze, Prato. Un fiume di gente attorno a quella striscia di terra gialloblù.

L’avversario era l’Empoli, categoria allievi. Dall’altra parte del campo, un uomo con il fisico appesantito ma lo sguardo limpido: Puskás, numero dieci sulle spalle. Si muoveva poco, quasi da fermo, ma quando toccava la palla il tempo cambiava ritmo. I compagni, carpentieri e operai che la domenica diventavano calciatori, non credevano ai loro occhi. Bastava uno sguardo per capire dove andare, e la palla arrivava lì, precisa, viva.

Non segnò, ma servì due assist, uno dei quali perfetto, “alla Puskás”. Il Signa vinse 3-0, e il piccolo stadio esplose di gioia. Quella sera, al teatro comunale, le due squadre si ritrovarono per cena. C’erano vino, applausi, risate. Gli abitanti di Signa si misero in fila per stringergli la mano. Lui, timido e sorridente, parlava poco, ma quando qualcuno gli chiese se sarebbe tornato a giocare, rispose con un lampo negli occhi: “Il calcio non finisce mai, cambia solo campo”.

Puskás nel Real Madrid



Pochi mesi dopo, scaduta la squalifica, il Real Madrid lo chiamò. Non tutti ci credevano: “È vecchio, è grasso, è finito”. Ma Santiago Bernabéu, presidente e visionario, vide oltre. In tre mesi Puskás perse dieci chili, ritrovò la forma e tornò a disegnare calcio.

Con la maglia blanca segnò 156 gol in 180 partite, vinse tre Coppe dei Campioni e una Coppa Intercontinentale, quattro volte capocannoniere in Spagna, e divenne “Pancho”, idolo di Madrid e del mondo. La sua carriera ripartì proprio da quella scintilla accesa tra Bordighera e Signa, in un pomeriggio toscano di nebbia e amicizia.

Oggi, a Signa, quel giorno non è un ricordo lontano. Nel 2016 il nuovo centro sportivo della città è stato intitolato a Ferenc Puskás, come omaggio a una leggenda che scelse di scendere tra la gente, anche solo per un’ora di gioco.

Tra via del Crocifisso e il rumore dei treni, i bambini che tirano calci al pallone non sanno forse chi fosse davvero quel nome sulla targa, ma nel rimbalzo sgraziato della palla sul terreno, tra fango e sogni, rivive per un attimo lo spirito di quell’uomo venuto da lontano. Perché il calcio, come la vita, a volte si misura non nei trofei, ma nei gesti semplici. E quel giorno di gennaio, a Signa, Ferenc Puskás insegnò proprio questo: che anche un campione, quando gioca con il cuore, può rendere eterno un campo di periferia.

Mario Bocchio

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