
L’ala granata che sfidò il tempo e la morale, trasformando il calcio in arte e la vita in una rivoluzione gentile. Un sogno spezzato a ventiquattro anni che ancora oggi illumina Torino come una luce mai spenta
Ci sono calciatori che vincono scudetti, coppe, partite memorabili. E poi ci sono quelli che vincono il tempo. Gigi Meroni non ha fatto in tempo a diventare un campione “compiuto”, ma è diventato eterno. Perché il suo dribbling non era solo un gesto tecnico: era un atto di libertà, una ribellione dolce contro l’ordine grigio degli anni Sessanta.

Torino era ancora ferita dalle cicatrici di Superga, città operaia e severa, chiusa nelle sue nebbie e nelle sue fabbriche. Poi arrivò lui, la farfalla granata, con i capelli lunghi e la camicia fuori dai pantaloni, le scarpe bianche e il passo leggero di chi non ha paura di essere diverso.
Sul campo era un artista, fuori un poeta distratto. Pittore, lettore di Sartre, compagno di una donna sposata – scandalo per la morale del tempo – e simbolo di un’Italia che cominciava appena a respirare modernità.

Quando Gigi prendeva palla sull’out destro, il Comunale si alzava in piedi. Non per aspettare un cross o un gol, ma per assistere a qualcosa di imprevedibile: un gesto irripetibile, un arabesco, un colpo d’immaginazione. Il calcio come libertà, non come schema. Il suo talento era anarchico e naturale, come se il pallone lo capisse prima ancora che lui decidesse cosa farne.

Per il Torino, Meroni fu molto più di un’ala. Fu un’identità ritrovata. Il ragazzo che restituì poesia a una squadra ancora orfana dei suoi Invincibili. In lui i tifosi rivedevano l’anima romantica del Grande Torino: la stessa leggerezza, la stessa malinconia.
Ogni partita diventava un piccolo rito, ogni dribbling una promessa di bellezza. Era come se il calcio, per qualche minuto, si facesse arte contemporanea, pop e rivoluzionaria insieme.

Poi arrivò quella sera del 15 ottobre 1967. Una domenica come tante, finita troppo presto. Una macchina, una strada, una curva sbagliata. E Torino che si fermò per sempre su quel marciapiede di corso Re Umberto.
Aveva ventiquattro anni, e un futuro che nessuno avrebbe potuto scrivere meglio di così: interrotto nel suo slancio, come un quadro lasciato a metà.
Ma la leggenda di Gigi Meroni non morì quella sera. Anzi, nacque davvero lì. Perché da allora il suo nome è rimasto sospeso tra mito e nostalgia, tra quello che fu e quello che poteva essere. Un simbolo non solo del Toro, ma del calcio italiano che ha smesso di sognare troppo presto.

Oggi, in un’epoca di atleti perfetti e di sponsor onnipresenti, Meroni resta una nota stonata e necessaria. Il ricordo di un calcio che sapeva ancora essere umano, fragile, poetico.
E forse è proprio questo il suo dono più grande: averci insegnato che il talento, come la libertà, non si può addomesticare.
Mario Bocchio