Gigi Meroni, il battito libero del Toro e dell’Italia che voleva cambiare
Ott 14, 2025

L’ala granata che sfidò il tempo e la morale, trasformando il calcio in arte e la vita in una rivoluzione gentile. Un sogno spezzato a ventiquattro anni che ancora oggi illumina Torino come una luce mai spenta

Ci sono calciatori che vincono scudetti, coppe, partite memorabili. E poi ci sono quelli che vincono il tempo. Gigi Meroni non ha fatto in tempo a diventare un campione “compiuto”, ma è diventato eterno. Perché il suo dribbling non era solo un gesto tecnico: era un atto di libertà, una ribellione dolce contro l’ordine grigio degli anni Sessanta.

L’antieroe che dribblava avversari, denaro e gloria



Torino era ancora ferita dalle cicatrici di Superga, città operaia e severa, chiusa nelle sue nebbie e nelle sue fabbriche. Poi arrivò lui, la farfalla granata, con i capelli lunghi e la camicia fuori dai pantaloni, le scarpe bianche e il passo leggero di chi non ha paura di essere diverso.

Sul campo era un artista, fuori un poeta distratto. Pittore, lettore di Sartre, compagno di una donna sposata – scandalo per la morale del tempo – e simbolo di un’Italia che cominciava appena a respirare modernità.

Meroni agli esordi con il Como

Quando Gigi prendeva palla sull’out destro, il Comunale si alzava in piedi. Non per aspettare un cross o un gol, ma per assistere a qualcosa di imprevedibile: un gesto irripetibile, un arabesco, un colpo d’immaginazione. Il calcio come libertà, non come schema. Il suo talento era anarchico e naturale, come se il pallone lo capisse prima ancora che lui decidesse cosa farne.

Il look di un calciatore beat



Per il Torino, Meroni fu molto più di un’ala. Fu un’identità ritrovata. Il ragazzo che restituì poesia a una squadra ancora orfana dei suoi Invincibili. In lui i tifosi rivedevano l’anima romantica del Grande Torino: la stessa leggerezza, la stessa malinconia.

Ogni partita diventava un piccolo rito, ogni dribbling una promessa di bellezza. Era come se il calcio, per qualche minuto, si facesse arte contemporanea, pop e rivoluzionaria insieme.

Barba e capelli lunghi: immagine di un calciatore anticonformista


Poi arrivò quella sera del 15 ottobre 1967. Una domenica come tante, finita troppo presto. Una macchina, una strada, una curva sbagliata. E Torino che si fermò per sempre su quel marciapiede di corso Re Umberto.
Aveva ventiquattro anni, e un futuro che nessuno avrebbe potuto scrivere meglio di così: interrotto nel suo slancio, come un quadro lasciato a metà.

Ma la leggenda di Gigi Meroni non morì quella sera. Anzi, nacque davvero lì. Perché da allora il suo nome è rimasto sospeso tra mito e nostalgia, tra quello che fu e quello che poteva essere. Un simbolo non solo del Toro, ma del calcio italiano che ha smesso di sognare troppo presto.

Meroni (a destra) in tight e capra al guinzaglio



Oggi, in un’epoca di atleti perfetti e di sponsor onnipresenti, Meroni resta una nota stonata e necessaria. Il ricordo di un calcio che sapeva ancora essere umano, fragile, poetico.

E forse è proprio questo il suo dono più grande: averci insegnato che il talento, come la libertà, non si può addomesticare.

Mario Bocchio

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