
Tra il vento del mare e il rombo dell’Amsicora, il trionfo di Gigi Riva non fu solo calcio: fu riscatto, orgoglio, identità. Cinquant’anni dopo, Cagliari ricorda ancora il giorno in cui l’isola intera smise di sentirsi periferia
A Cagliari, basta camminare lungo via Roma, tra i portici e il respiro salmastro del porto, per capire che il tempo non ha cancellato nulla. Lo scudetto del 1970 è ancora lì, sospeso nell’aria come una canzone conosciuta da tutti. Lo trovi nei murales di Castello, nei bar dove il caffè sa di mare e memoria, nei racconti dei pescatori e dei pastori scesi dal monte per assistere a quel miracolo.
Perché miracolo fu. Prima di quel 12 aprile 1970, la Sardegna viveva ai margini del Paese, raccontata dai continentali come terra di banditi e di silenzi, di pascoli e di solitudine. Un’isola ferita, divisa tra la fierezza delle sue radici e la povertà che costringeva molti a partire. Ma da quei pascoli e da quel mare nacque un sogno di riscatto. Lo interpretò una squadra, il Cagliari, e un uomo, Gigi Riva, lombardo di nascita, sardo per destino.

“Rombo di Tuono” non era solo un soprannome: era la voce di un popolo abituato a non essere ascoltato. Con lui, con Nenè, Domenghini, Gori e Martiradonna, l’isola imparò a farsi sentire. In panchina, Manlio Scopigno, il “filosofo”, guardava tutto con un sorriso ironico e malinconico, come se sapesse che stava guidando qualcosa di irripetibile.
Lo stadio Amsicora, con la pista d’atletica e le tribune di cemento, diventò la cattedrale laica della Sardegna. Ogni domenica, tra bandiere e bandoliere, tra urla e preghiere, i cagliaritani si stringevano come in un rito. Quando il Cagliari vinse 2-0 sul Bari e lo scudetto divenne realtà, l’isola intera esplose: i pastori lasciarono le greggi, le campane suonarono a festa, e nei paesi dell’interno le strade si riempirono di cortei improvvisati.

Fu una liberazione. L’Italia scoprì che la Sardegna non era solo cronaca nera o folclore, ma un popolo orgoglioso e gentile, capace di vincere con eleganza. Per un attimo, il banditismo e la miseria furono spazzati via dal vento di maestrale che portava l’eco dei gol di Riva. E l’isola, da terra dimenticata, divenne regno.
Oggi, più di mezzo secolo dopo, Cagliari non ha dimenticato. Nelle foto ingiallite dei bar di quartiere, nei racconti dei vecchi tifosi seduti al Poetto, negli occhi dei ragazzi che non c’erano ma che pronunciano quel nome con devozione – Riva – sopravvive la stessa emozione.

Perché quel tricolore non fu soltanto sport: fu la rivincita di un popolo intero, la dignità riconquistata, la dimostrazione che anche un’isola lontana può toccare il cielo.
E il vento dell’Amsicora, ancora oggi, sembra ricordarlo.
Mario Bocchio