
Tra le pietre gialle di piazza delle Erbe e i sogni sospesi del Bentegodi, la città rivive la stagione in cui il pallone divenne poesia e il destino parlò in dialetto veneto
Giri per le vie e le piazze di Verona e senti ancora qualcosa nell’aria. Non è nostalgia, non solo almeno: è una corrente leggera che passa tra gli archi di Porta Borsari, un sussurro che sale dal fiume e si perde nei portici di piazza Bra. È la voce dello scudetto del 1985, quella favola di provincia che il tempo non ha osato spegnere.

I bar del centro portano ancora, incorniciate e ingiallite, le foto di Bagnoli con la giacca di lana e lo sguardo di chi sapeva di avere un segreto. I vecchi tifosi, oggi con i capelli d’argento, parlano di Elkjaer come si parla di un amico che partì e non tornò mai davvero. “Quel giorno contro la Juve – dicono – sembrava che anche il cielo fosse gialloblù”.

C’è un sentimento che si respira solo qui, dove la normalità si è fatta leggenda. Un Verona operaio, costruito senza clamore, che arrivò a toccare il sole. Garella che parava con tutto il corpo, Fanna che danzava sulla fascia, Briegel che correva come una locomotiva, e il “Sindaco” Tricella che teneva insieme la città e la difesa. Tutti orchestrati da Osvaldo Bagnoli, maestro silenzioso, che riuscì a far credere a undici uomini che il miracolo fosse solo un piano ben riuscito.

Oggi, quarant’anni dopo, Verona si guarda allo specchio e ritrova quel riflesso giovane e impetuoso. Ogni primavera, quando il vento arriva dall’Adige e le rondini si posano sui merli di Castelvecchio, qualcuno sussurra: “Te ricordi, el scudeto?”. E basta quella frase per far tornare tutto: le bandiere ai balconi, i clacson nella notte, le lacrime di chi non credeva ai propri occhi.



Lo scudetto sui giornali dell’epoca
In un calcio di oggi dove il denaro pesa più del destino, quella vittoria resta una bestemmia romantica. Il Verona del 1985 fu l’ultima ribellione di un calcio contadino, di una bellezza onesta e irripetibile.
E allora sì, cammini per Verona e senti ancora quella magia. Non perché sia rimasta identica, ma perché non è mai davvero finita. È rimasta nei mattoni, nei racconti, nei cuori: come una canzone che non smette di suonare, anche quando l’orchestra ha smesso da tempo.
Mario Bocchio