
Dagli anni bui della DDR alla Champions League: il cammino dell’Eisern Union
Per raccontare l’Union Berlino bisogna attraversare i decenni più complicati della storia tedesca. Non è solo calcio: è un mosaico di politica, ribellione e appartenenza popolare.

Nella Germania Est, il pallone non era mai solo sport. Il potere controllava tutto, e anche le squadre di calcio erano pedine nello scacchiere politico. A Berlino Est dominava la BFC Dynamo, la squadra della Stasi di Erich Mielke, che accumulava titoli grazie a decisioni arbitrali pilotate e a un sistema iniquo.

L’Union, invece, era l’altra faccia della capitale: un club non ufficialmente “politico”, ma percepito come la squadra del popolo, degli operai, dei lavoratori che non si riconoscevano nella macchina repressiva del regime. Scegliere i colori biancorossi significava, in un certo senso, prendere posizione. Non stupisce che nelle curve si formasse una comunità fatta di resistenza culturale e civile, più che di successi sportivi.

La nascita ufficiale dell’Union Berlin risale al 20 gennaio 1966, quando i sindacati ottennero che anche i lavoratori avessero una propria squadra d’élite, a fianco della Dynamo (Stasi) e del Vorwärts (esercito). Fu una concessione politica, ma la nuova società finì per diventare molto più di questo: un rifugio identitario per chi non voleva piegarsi all’establishment.
Da quel momento nacque il soprannome “Eisern Union” (“Unione di ferro”), che non era solo un grido da stadio ma un manifesto. Mentre la Dynamo collezionava campionati, l’Union oscillava tra Oberliga e serie inferiori, vivendo di sporadiche gioie: nel 1968 la conquista della Coppa contro il Carl Zeiss Jena, unico vero trofeo della sua bacheca.

Gli anni Settanta e Ottanta furono durissimi. Le ingiustizie arbitrali a favore della Dynamo erano sistematiche, e le speranze sportive dell’Union si spegnevano puntualmente. Eppure, paradossalmente, fu proprio questa condizione a cementare l’identità ribelle del club. Tifare Union significava appartenere a una comunità che accettava la sofferenza sportiva pur di non piegarsi al “sistema”.

Il 14 dicembre 1989, poco dopo il crollo del Muro, l’Union compì un gesto epocale: fu la prima squadra della DDR a presentarsi in campo con una maglia sponsorizzata da un’azienda della Germania Ovest, la ditta di pulizie Brauer. Un segno di liberazione, un pugno simbolico al passato, con i tifosi increduli e fieri sugli spalti dell’Alte Försterei.

Mentre la città era divisa, tra Union e Hertha si creò un legame inaspettato. Negli anni Settanta e Ottanta le tifoserie si scambiavano sciarpe e messaggi di solidarietà: “Amici dietro il filo spinato”, recitavano le patch cucite a mano. Dopo la caduta del Muro, l’11 novembre 1989, migliaia di tifosi dell’Est corsero all’Olympiastadion per vedere l’Hertha. E pochi mesi dopo, nel gennaio 1990, andò in scena la “partita della riunificazione”: Hertha contro Union davanti a 50.000 persone. Finì 2-1 per i blau-weiß, ma quel giorno il risultato contò meno del messaggio.
Se la Dynamo era simbolo del potere, l’Union fu simbolo di resistenza. Un club senza gloria sportiva ma con un capitale emotivo enorme, che lo ha tenuto vivo anche negli anni più difficili dopo la riunificazione, quando molti club dell’Est scomparvero o si ridussero a comparse.
L’Union, invece, grazie al legame viscerale con i tifosi, è rimasto in piedi. E quel grido “Eisern Union” che negli anni della DDR rappresentava un atto di coraggio, oggi accompagna la squadra addirittura in Champions League.
Mario Bocchio