
Dalla Coppa UEFA al quartiere di Hjällbo, una vita dedicata al calcio e alla comunità, tra squadra, solidarietà e impegno sociale
Ruben Svensson sorseggiò il caffè e per un istante si fece serio. Era seduto in un bar di Majorna, il vecchio quartiere operaio di Göteborg, dove aveva vissuto e lavorato per anni; da poco aveva lasciato il suo incarico di educatore di tempo libero a Hjällbo e portava con sé l’aura di una leggenda blu-bianca. Nato e cresciuto a Hagfors, nel Värmland – e con quel dialetto che ancora riaffiorava quando parlava – Ruben era arrivato a Göteborg dopo gli studi a Linköping e le stagioni in cui aveva contribuito a portare il BK Derby nella massima serie svedese.
Negli anni d’oro era stato il terzino destro dell’indimenticabile IFK Göteborg che nel 1982 vinse tutto: Allsvenskan, la Coppa di Svezia e la Coppa UEFA. Quell’anno i tifosi lo premiarono con il riconoscimento “Årets ärkeängel” e il soprannome affettuoso e indissolubile di “Röde Ruben”, “Ruben il rosso” – nato più per via delle sue posizioni politiche che per altro – lo accompagnava da allora senza infastidirlo affatto.

Ruben ricordava bene come, da ragazzo, avesse cominciato a farsi delle idee sul mondo osservando le differenze sociali. Suo padre era un sovrintendente di successo; la famiglia viveva in una villa. Ma quando Ruben frequentava amici di famiglie più modeste, le disuguaglianze si mostravano nitide: furono quegli incontri, negli anni Sessanta, a formare i suoi convincimenti. Nel tempo li mantenne, anche quando – venendo da un background più agiato – venne messo alla prova dai compagni che “lo testavano” fino a quando lo sport non gli diede il rispetto che cercava.



Ruben Svensson, autentico personaggio
Guardando indietro, Ruben descriveva il costruire una squadra come un atto politico di sinistra: si aiuta, si lavora insieme, in difesa come in attacco. È la stessa idea di società che vorrebbe vedere, più cooperazione, meno divario. Certo, aggiungeva, l’individuo deve poter emergere, ma il collettivo resta la cosa più importante. Pensava che maggiori disparità salariali portassero a un peggioramento del benessere collettivo e a una crescita della criminalità: un circolo vizioso che lo preoccupava.
Da quando, nel 2001, aveva iniziato a lavorare come educatore a Hjällbo, quartiere a alta presenza di immigrati e con tassi di disoccupazione elevati, aveva visto da vicino quanto fosse fragile il destino dei giovani quando le opportunità scolastiche mancano. “Non bisogna lasciarli andare”, rifletteva: molti ragazzi escono dalla scuola senza voti sufficienti e, se non intervieni, la probabilità che finiscano nella criminalità è alta. Ma non mancavano le qualità: bastava scoprire altri talenti e offrire percorsi alternativi. Si rammaricava della segregazione cittadina e del fatto che tanta potenzialità restasse inutilizzata.

Il calcio per Ruben non era solo risultati: era comunità. Nei discorsi sulla trasformazione del gioco negli ultimi decenni vedeva segni tangibili di allontanamento. La sua generazione aveva ancora molti giocatori fedeli ad una sola squadra; oggi i calciatori cambiano club con grande frequenza e la coesione di squadra si perde. Anche il calcio di base soffriva: la diminuzione delle squadre tra i livelli inferiori – con club costretti a ritirarsi per mancanza di giocatori – era per lui un segnale pericoloso. Meno squadre significa meno opportunità di socialità per i giovani, e questo ha ricadute sull’intera comunità.
Di fronte a questi problemi Ruben vedeva anche cause politiche e culturali: l’individualismo esasperato, la pressione della pubblicità che impone beni e status, e una società che misura tutto con il denaro. Per lui, invece, la qualità della vita può trovarsi in lavori umili ma dignitosi – un posto in fabbrica, un impiego come addetto alle pulizie – e soprattutto nella possibilità di appartenere a una comunità.

Con l’avvicinarsi delle elezioni, le sue preoccupazioni si facevano politiche. Vedendo i partiti avvicinarsi tra loro, temeva la crescita delle forze che cavalcano i timori e l’insicurezza sociale, e citava con allarme la possibile affermazione degli estremi nazionalisti. Sosteneva che problemi reali – pensioni insufficienti, servizi sottofinanziati – venissero sfruttati da chi cerca capri espiatori nei migranti. Indicava la questione delle pensioni come emblematica: troppi anziani vivono sotto la soglia di povertà e il sistema, se non finanziato meglio, darà esiti ancora più gravi per le generazioni future.

Nonostante tutto, Ruben non aveva paura della vecchiaia: intendeva prendersela comoda dopo il pensionamento e mantenersi attivo. Ogni sabato si recava al Kamratgården a giocare cinque contro cinque con i compagni di sempre – ormai “l’older guard” del Blåvitt – e il rituale del caffè e delle chiacchiere dopo la partita era per lui un balsamo. Nel corso degli anni ha totalizzato 390 partite con la prima squadra dell’IFK Göteborg; è stato anche viceallenatore tra il 1993 e il 2000 e, nel 2014, ha accettato l’incarico di magazziniere del club, ruolo che dopo un po’ riconobbe non essere la sua strada, ma che ricordava con affetto.
Quando guardava ai singoli compagni, non riusciva a stilare classifiche semplici: il talento di Torbjörn Nilsson rimaneva per lui il punto più alto. Tra gli avversari, ricordava René Botteron per le difficoltà che gli aveva creato; tra i giovani allenati, aveva un occhio di riguardo per Jesper Blomqvist, che aveva visto emergere dai livelli giovanili con un impatto immediato.
Così passavano i giorni del nuovo pensionato: partite leggere, caffè e conversazioni, qualche riflessione politica. Nel racconto della sua vita il filo costante era sempre lo stesso: la squadra prima di tutto, la comunità prima di tutto, e la convinzione che con più solidarietà la società stia meglio.
Mario Bocchio