George Best, il genio ribelle che sedusse l’America
Set 12, 2025

Dall’Old Trafford a Hollywood: la parabola americana di un talento irregolare

George Best è sempre stato raccontato come l’uomo che avrebbe potuto dominare la storia del calcio, se solo avesse voluto. Troppo spesso ridotto a un cliché di donne, feste e bicchieri alzati. La verità, come accade con i personaggi più grandi, sta nel mezzo: il suo talento rimane ineguagliabile, e sebbene le cadute personali abbiano segnato il suo destino, non gli hanno mai impedito di lasciare impronte indelebili sul campo.

Best, ribelle dall’immenso talento

Per oltre un decennio fu il volto del Manchester United. Con i Red Devils conquistò due campionati inglesi, una Coppa dei Campioni nel 1968 e lo stesso anno si mise in tasca anche il Pallone d’Oro. Best non era solo un’ala: era velocità, dribbling irresistibili, colpi di genio e un tocco di cattiveria agonistica che sorprendeva chi lo vedeva gracile. Ma mentre lo United scivolava verso la crisi nei primi anni ’70, il nordirlandese sprofondava in un rapporto sempre più tossico con l’alcol.

Best nei Los Angeles Aztecs insieme a Palé, al tempo nei New York Cosmos



Stanco del “solito vecchio circo” inglese, Best cercò un altrove. L’occasione arrivò dalla NASL, il campionato nordamericano che sognava di diventare la nuova frontiera del calcio mondiale. I New York Cosmos lo tentarono per primi, ma vivere stabilmente nella metropoli non lo convinceva. Dopo un pellegrinaggio tra Sudafrica, Irlanda e squadre minori, approdò infine in California, ai Los Angeles Aztecs, nel 1976.

1978, Best nei Fort Lauderdale Strikers. Eccolo fotografato insieme a Bill Ronson



Lì, lontano dai riflettori asfissianti di Manchester, Best tornò ad assaporare la libertà del gioco. Due stagioni splendenti, gol a raffica e la capacità di trascinare una squadra modesta fino ai playoff. Per un attimo parve di rivedere il ragazzo prodigio di Old Trafford.

La vita californiana, vicina a Hollywood, si rivelò però una trappola per un uomo fragile come lui. Nel 1978 passò così ai Fort Lauderdale Strikers, sulla costa opposta, dove il pubblico riempiva gli stadi per ammirarlo. Ancora una volta il talento non bastò a portare trofei, ma le sue giocate restarono scolpite negli occhi degli spettatori.

L’asso nordirlandese con la maglia dei San José Earthquakes



Non pago, Best tornò in California nel 1980, vestendo la maglia dei San José Earthquakes. Anche con un fisico logorato, riuscì a illuminare il campionato, regalando quello che molti considerano il gol più bello della storia della NASL: cinque avversari saltati con la leggerezza di un artista, prima di battere il portiere.

Quando la lega americana iniziò a sgretolarsi, Best stesso la descrisse come “un calcio della domenica”. Ne intuì il crollo imminente e tornò in patria, con un’ultima parentesi al Bournemouth e persino qualche mese in Australia. Non accettò mai di partecipare da comprimario: ai Mondiali 1982 preferì il ruolo di commentatore a quello di giocatore, dichiarandosi fuori forma.



Così terminò la parabola calcistica di George Best: non solo una leggenda dello United, ma anche un ambasciatore del calcio negli Stati Uniti, capace di accendere entusiasmi e lasciare immagini immortali. Un uomo contraddittorio, professionale sul campo quanto sregolato fuori, che non sprecò il suo dono, ma lo usò a modo suo, senza compromessi.

In America non vinse titoli, ma conquistò un altro primato: quello di rendere il soccer uno spettacolo che, per qualche anno, seppe incantare persino un Paese che non aveva mai amato davvero il calcio.

Mario Bocchio

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