
Estati di un calcio libero, sgangherato e indimenticabile
Il campo non era un campo: un trapezio storto, in leggera pendenza. In alto la porta addossata alla collina, in basso quella rivolta verso la chiesa e la canonica, con il teatrino parrocchiale trasformato in spogliatoio e la fontanella al posto delle docce. Don Nebiolo ascoltava tutto da dietro la sacrestia: bestemmie, insulti, risate. Il treno per Torino passava a un tiro di pallone, ricordando che la settimana era università, fabbrica, assemblee, ma dal venerdì sera contava solo una cosa: il torneo di Revignano. Terra astigiana.

All’inizio eravano in pochi, scarpe “civili” che scivolavano sulla segatura del bar Cocchi. Ma presto arrivò il patron Carlo Ruffinengo, anima e arbitro di tutto. La sua Juve Ruffi, bianconera e imbattibile, trasformò il prato in uno stadio vero: ruspa per livellare, gesso per tracciare le righe, pali imbiancati, bandierine agli angoli. E soprattutto un regolamento, un piccolo decalogo firmato da Carlo con la benedizione del parroco.

Da lì nacque una piccola epubblica del pallone. Squadre con nomi inventati e surreali – Nada Estudiantes, Zimpogeni, Nibecurtzen, Ospedalieri, Sole che ride – sfidavano i Ruffi senza quasi mai batterli. Le punizioni erano fantasiose: chi esagerava pagava da bere a tutti. I soprannomi circolavano più veloci dei passaggi: “Mitraglia”, “Long Jon”, “Califfo”, “San Guido”, “Nanu”, “Topogoal”. Una galleria di eroi minori, metà calcio e metà teatro popolare.

Il calciomercato si faceva sotto i portici di piazza Alfieri, tra una vasca e l’altra. Le cronache dei giornali locali iniziavano a dedicare colonne e foto. C’era perfino la “nasiunàl” di Revignano, in maglia azzurra, che sfidava gli ingegneri del Politecnico di Torino, avversari misteriosi come venuti da un’altra galassia.
Con gli anni, il torneo emigrò anche in altri campi della provincia, fino ad Asti, lo stadio vero. Poi, pian piano, la voce smise di correre. Nessuna fine ufficiale, solo un lento dissolversi. Oggi resta un alone in bianco e nero, il ricordo di un’epoca in cui studenti, operai, medici, bidelli e futuri avvocati si ritrovavano sullo stesso prato storto, a dar botte e a ridere insieme.
Mario Bocchio
Le fotografie sono dell’archivio dell’ “Associazione Astigiani”