
Dalla retrocessione con la Samp allo scudetto del 1980: la parabola del tecnico che riportò i nerazzurri a vincere
Nell’estate del 1977 l’Inter era un cantiere aperto: Mazzola aveva salutato da calciatore, Facchetti era all’ultima stagione, e i fasti della Grande Inter erano ormai lontani. Il presidente Ivanoe Fraizzoli, deciso a rifondare, scelse un allenatore che non aveva nulla di glamour: Eugenio Bersellini, appena retrocesso con la Sampdoria.

Lontano dagli stereotipi del “mister elegante”, Bersellini arrivò a Milano in tuta, con modi spicci e una filosofia chiara: lavoro, disciplina, preparazione atletica. Lo chiamavano “sergente di ferro”, e in effetti non faceva sconti a nessuno. Ciò che chiese al club fu semplice ma rivoluzionario: tempo per costruire.

La sua Inter nacque con giovani da forgiare e pochi innesti mirati. Altobelli e Scanziani furono i primi tasselli, seguiti da ragazzi di talento come Beccalossi e Pasinato. All’inizio arrivarono un quinto posto e una Coppa Italia, ma la svolta giunse due anni più tardi: la stagione 1979-’80. Quella squadra, tutta corsa e carattere, asfaltò Milan e Juventus in un magico autunno e si prese lo scudetto con tre giornate d’anticipo. Un campionato che rimase storico: l’ultimo senza stranieri e il primo segnato dallo scandalo del calcioscommesse, che travolse molti ma non l’Inter di Bersellini, solida e immune a certe tentazioni.

Negli anni successivi il tecnico non riuscì a ripetere l’impresa in campionato, ma regalò un’altra Coppa Italia e una semifinale di Coppa dei Campioni, sfumata nel doppio confronto con il Real Madrid. Lasciò l’Inter dopo cinque stagioni, con la fama di uomo integerrimo, poco incline ai riflettori, ma capace di trasmettere un’identità forte alla squadra.
Bersellini non fu un innovatore raffinato, né un esteta del calcio. Fu piuttosto un costruttore paziente, che con lavoro e rigore riportò i nerazzurri a vincere. A suo modo, un allenatore irripetibile.
Mario Bocchio