
Enrique Flamini, l’oriundo venuto da Rosario, stregò Torino con una doppietta alla Juventus nel 1950. Una bandiera biancoceleste tra campo e panchina
Lo chiamavano “El Flaco”, il magro. Ma bastava vederlo in campo, con quella classe elegante e la personalità da leader, per capire che la sua statura morale superava di gran lunga la sua corporatura esile. Enrique Domingo Flamini era nato a Rosario, in Argentina, nel 1917, ma fu il destino a portarlo a Roma, sponda Lazio, dove diventò un simbolo, un punto di riferimento prima da calciatore e poi da allenatore.


La Lazio scopre Flamini
Con la maglia biancoceleste disputò 271 partite in campionato, realizzando 44 gol, lasciando un’impronta indelebile negli anni ’40 e ’50. Ma c’è una data che più di altre illumina il suo cammino: 22 gennaio 1950, Juventus-Lazio 1-2. In quello che era considerato uno dei campi più difficili d’Italia, Flamini mise in scena la sua recita più bella.

Allo stadio torinese si affrontavano due squadre in grande forma: da un lato la Juventus dei campioni Parola e Boniperti, dall’altro una Lazio solida, con i fratelli Sentimenti tra i pali e in difesa, e la fantasia di Puccinelli e Cecconi davanti. Proprio Cecconi, ispiratissimo, aprì la strada al trionfo: dopo aver colpito un palo e costretto il portiere Viola a due interventi prodigiosi, servì a Flamini un pallone d’oro che il “Flaco” trasformò nel vantaggio laziale, piazzando il pallone sotto misura con freddezza.


Sulle figurine
Pochi minuti più tardi, il copione si ripeté: ancora Cecconi al centro dell’azione, ancora Flamini a finalizzare con lucidità, stavolta da posizione leggermente più angolata. Due colpi chirurgici, due fendenti che fecero gelare il pubblico di casa.
La Juventus accorciò le distanze con una prodezza di John Hansen, ma la Lazio non si chiuse. Continuò a spingere, sfiorando il terzo gol e rischiando soltanto in un’occasione: un rigore concesso ai bianconeri per un presunto fallo di Alzani, tra le proteste dei romani. Mari si presentò sul dischetto ma calciò fuori, lasciando intatte le speranze laziali.

Nel finale fu ancora la squadra di Sperone a rendersi pericolosa, con Hofling che sprecò un’occasione d’oro e Sentimenti IV decisivo su Praest. Quando arrivò il triplice fischio, esplose la gioia dei biancocelesti: una vittoria pesante, che vendicava la sconfitta dell’andata e confermava le ambizioni di una squadra compatta e ambiziosa.

La stagione si sarebbe chiusa con un quarto posto prestigioso, alle spalle della Juventus campione d’Italia e delle milanesi. Ma la Lazio avrebbe potuto vantare la miglior difesa del campionato, ex aequo proprio con i bianconeri, con sole 43 reti al passivo.
E in quella giornata d’inverno a Torino, quella difesa riuscì addirittura a oscurare la stella più brillante del calcio italiano: Giampiero Boniperti. Ma i riflettori, almeno per una volta, erano tutti per Enrique Flamini, l’uomo venuto da Rosario che aveva conquistato Roma con grazia e intelligenza.
Mario Bocchio