
Dall’argento olimpico col Paraguay al sogno spezzato di giocare nella Roma di Totti e Spalletti. Poi l’incidente, il buio, la rinascita. Oggi è tornato a Vicenza, accolto come un eroe. La sua è una storia di coraggio, amore e seconde possibilità
Provate a immaginare di inseguire fin da bambini un sogno: diventare calciatori. Di crescere a pane e pallone, fare sacrifici su sacrifici, salutare la famiglia per andare dall’altra parte del mondo. Di affermarvi in un paese lontano, di indossare la maglia della Nazionale, di salire su un podio olimpico, di guardare in faccia campioni come Pirlo e De Rossi… e batterli. E poi, proprio quando la vita sembra pronta a spalancarvi le porte del grande calcio – con un contratto in tasca per approdare alla Roma – tutto svanisce in un secondo.
Un colpo di sonno, un’auto fuori strada, un risveglio in ospedale. “Non potrai più giocare a calcio”, ti dice il medico. Hai perso un braccio. E insieme a quello, sembra essersi spezzato tutto il tuo futuro.
Ora, provate a immaginare di riuscire a dire: “Quello è stato il giorno più bello della mia vita”. Se ci riuscite, allora avete dentro la forza di Julio González. Ma probabilmente no, perché uno come lui è davvero unico.

Arrivato in Italia giovanissimo dal Paraguay, Julio González approda a Vicenza da ragazzo qualunque. All’inizio fatica ad ambientarsi, poi si accende la scintilla: i gol arrivano, il pubblico lo adora, e nel cassetto c’è già pronto il contratto con la Roma di Spalletti, Totti e De Rossi. Corre la stagione 2005-’06, Julio è capocannoniere e sogna in grande. Ma la notte della vigilia di Natale, mentre guida verso l’aeroporto per tornare a casa, si addormenta al volante. Lo schianto è devastante. L’auto è irriconoscibile. Il corpo anche.
“Quello è stato il giorno più bello della mia vita” ripete ancora oggi. Perché in quel giorno in cui tutto sembrava finito, Julio ha scoperto che la vita, in fondo, non è solo calcio. “Ero distrutto – racconta – non tanto per il braccio, ma per i sogni che svanivano. Per i sacrifici fatti, miei e della mia famiglia. Avevo una carriera davanti, e mi era stata tolta di colpo. Ma ho capito che poteva essere un nuovo inizio. Che c’era ancora tanto da vivere”.
La sua passione nasce a casa, in Paraguay, in una famiglia dove il pallone era tutto. “Papà sognava di fare il calciatore, ma doveva lavorare per mantenere la famiglia. Così ha trasmesso il sogno a noi figli. E mamma… mamma era più tifosa di tutti. Faceva da mangiare per tutti dopo le partite, sembrava una festa ogni volta”.

A 19 anni Julio prende un volo per l’Italia. “Difficile lasciare tutto, ma quando senti che è l’occasione della tua vita, vai. Con entusiasmo, anche se hai paura”. Supera lo shock culturale, rientra un anno in Paraguay per ritrovare sé stesso, poi torna e decolla. Prima la chiamata olimpica, poi l’argento con la Nazionale: “Contro l’Italia era durissima. Pirlo, De Rossi, Chiellini, Gilardino… ci schiacciavano nella nostra metà campo. Io ero solo davanti, a difendere palloni. Catenaccio puro, come lo chiamate voi? Ecco, esatto”. Poi la finale contro la corazzata Argentina di Tévez, Zanetti, Ayala e Burdisso. Paraguay sul podio: mai successo prima, né dopo.
Poi il buio. L’incidente. La consapevolezza che in Italia non potrà mai più giocare da professionista. Ma Julio non si arrende: si allena, insiste, torna in Paraguay e rientra in campo. “Ci ho provato, ma non era più la stessa cosa. Avevo problemi di equilibrio, cadevo spesso. Alla fine mi sono fratturato la clavicola e ho detto basta”. Ma non è una resa. È un altro inizio.

Si iscrive al corso allenatori, fonda una scuola calcio per bambini. “È stato tutto naturale. Poi è arrivato Moises, un bimbo orfano. Oggi è mio figlio. È cresciuto, ora è lui a gestire la scuola calcio, diventata Inter Campus. Si è sposato, sono diventato nonno. La vita ha ricompensato tutto”.
Oggi Julio è tornato a Vicenza. Nella sua “Lane”, come la chiamano lì. L’accoglienza è da pelle d’oca. “Non riesco a spiegarmi l’affetto che ricevo ogni volta. Mi aspettavo l’oblio, invece è come se il tempo non fosse mai passato. Vicenza è casa mia. E adesso che il club mi ha chiesto di lavorare coi giovani, sento di avere una nuova missione”.
E ai ragazzi di oggi, spesso considerati troppo fragili, Julio cosa dice? “Non dimentichiamoci che hanno vissuto la pandemia, qualcosa che noi adulti tendiamo a sottovalutare. Ma quando vedo qualcuno che vuole mollare alla prima difficoltà, io sono lì. Per dire che si può sempre ricominciare. Che le difficoltà fanno parte del gioco. E che non bisogna mai arrendersi”.
Lui, che ha perso un braccio e guadagnato una vita nuova, è la prova vivente che i sogni non finiscono. Cambiano forma. E a volte diventano ancora più grandi.
Mario Bocchio