Lucescu, il maestro venuto dall’Est: da Bucarest all’olimpo degli allenatori
Ago 1, 2025

16 aprile 1983, Bucarest. Allo Stadionul 23 August va in scena Romania–Italia, quarto turno del girone di qualificazione a Euro ’84. Per gli Azzurri è una sorta di ultima chiamata: dopo la gloria irripetibile del Mundial di Spagna, qualcosa si è spento. Nessuna vittoria da mesi, solo un’amichevole persa con la Svizzera e tre pareggi di fila con Cecoslovacchia, Romania e Cipro. L’eco dei cori del Bernabeu si è fatto lontano, sbiadito. L’Italia ha bisogno di una scossa, di una vittoria per tenere viva la speranza di qualificarsi all’Europeo. Ma a Bucarest trova un brusco risveglio.

In campo non ci sono più i campioni del mondo, ma le loro ombre. E a rispedirli al mittente ci pensa una Romania giovane, affamata e perfettamente organizzata. Finisce 1-0 con un gol di Bölöni nel primo tempo, ma il risultato va ben oltre la sconfitta: è la constatazione che il ciclo azzurro, forse, è già tramontato. L’Italia sembra spaesata, vittima di una recita surreale, mentre i romeni – Moraru, Ungureanu, Iorgulescu, Camataru – sembrano usciti da un copione di Ionesco, sì, ma con la voglia vera di prendersi una rivincita storica.

Capitano della Romania ai Ai Mondiali del 1970 in Messico



In panchina, a guidarli, c’è un nome ancora sconosciuto al calcio italiano: Mircea Lucescu. Ex calciatore di livello – 64 presenze e un Mondiale giocato da capitano in Messico nel 1970, stella della squadra della Polizia, la Dinamo Bucarest- Lucescu è al debutto vero da selezionatore. Ha idee moderne, metodi fuori dagli schemi e una visione che pochi, all’epoca, riescono anche solo a intuire. Ma uno lo nota: Romeo Anconetani, patron del Pisa, segugio di talenti e menti brillanti. Ci vorranno sette anni perché riesca a portarlo in Italia, ma quel giorno a Bucarest è la scintilla.

Nel Pisa mentre impartisce disposizioni a Diego Simeone



Lucescu nasce e cresce a Ferentari, quartiere popolare di Bucarest. Già da ragazzo intuisce che il calcio non basta. Chi vuole diventare un vero professionista, deve studiare, conoscere, aprire la mente. Quando allena il Corvinul Hunedoara, obbliga i suoi calciatori a frequentare la scuola. Più avanti, con mezzi maggiori a disposizione, li porta in visita nelle città dove vanno in trasferta. Quando guida lo Shakhtar, li porta nelle miniere per toccare con mano la fatica vera. Da commissario tecnico, distribuisce ai convocati schede culturali con consigli che vanno dall’apprendimento di una lingua straniera alla lettura. Per Lucescu, allenare non è solo disegnare schemi: è formare uomini.

Il “Luce” alla guida della Reggiana



Un precursore, certo. Ma anche un vincente. Perché a differenza di tanti altri visionari del pallone, Lucescu non si è perso nei sogni: li ha trasformati in trofei. Il suo palmarès è immenso: 37 titoli ufficiali, tra cui una Coppa Uefa con lo Shakhtar Donetsk e una Supercoppa Europea col Galatasaray. Solo Ferguson e Guardiola lo precedono nella classifica degli allenatori più vincenti della storia. E ogni squadra che ha allenato – dalla Romania alla Turchia, passando per club di Romania, Italia, Ucraina, Russia e Turchia – ha lasciato il segno.

La gioia di Lucescu dopo la prima promozione in A del Brescia nel ’92:
ai suoi fianchi si riconoscono Luciano De Paola e Alessandro Quaggiotto



In Italia, al Pisa, arrivò nel 1990 e trovò un giovane analista curioso: Adriano Bacconi. Gli mise in mano una telecamera e un videoregistratore: “Studia gli avversari”, gli disse. L’analisi video era ancora un terreno vergine, ma Lucescu già ci puntava. Curiosità, cultura e organizzazione: i pilastri del suo metodo. In Italia oltre ai nerazzurri pisani ha anche guidato il Brescia, la Reggiana e l’Inter di Ronaldo e Baggio.

La vittoria nella Supercoppa europea con il Galatasaray



Nel 2023 aveva annunciato il ritiro. Ma nel 2024, quando la Romania gli ha chiesto di tornare in panchina per tentare l’assalto al Mondiale del 2026, ha detto sì. Come poteva dire di no? Chi ha fatto della coerenza con le proprie idee una ragione di vita, non conosce davvero la parola “pensione”.

Mario Bocchio

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