Sollier contro l’Olimpico: il giorno in cui il pugno chiuso sfidò la curva Nord
Lug 30, 2025

Il cielo di Roma sembrava trattenere il fiato, quel giorno. Non per il Perugia, non per la Lazio. Ma per lui. Paolo Sollier, il calciatore operaio, il mediano che aveva fatto del pugno chiuso un gesto politico prima ancora che sportivo. Quella non era una partita normale. Era una sfida frontale, senza rete, tra due Italie.

Sollier arrivava all’Olimpico col peso di una frase, pronunciata forse con leggerezza, forse con troppa onestà, il giorno prima in un’intervista concessa al Messaggero. Parlava di tutto: del mister Castagner, del suo stato di forma, della formazione. Ma poi, tra una stretta di mano e un sorriso, lasciò andare una battuta:

“Spero con tutto il cuore di battere la squadra di Mussolini”.

Paolo Sollier e il pugno chiuso
Personaggio sUn giocatore anomalo, che cercò di portare il suo credo politico nel mondo del pallone

Il giorno dopo, il quotidiano uscì con un titolo a nove colonne. L’effetto fu immediato, radioattivo. Roma si spaccò in due, e l’Olimpico si preparò a diventare un tribunale a cielo aperto. Non più Lazio-Perugia, ma Lazio-Il Comunista, una guerra per procura in cui il calcio era solo il pretesto.

Ad accogliere le squadre in campo c’è tutto uno stadio contro Sollier. Fischi, urla, insulti, cori che grondano odio. “Boia!”, “Torna in URSS!”, “Comunista di m****!”. La partita non contava più niente: l’importante era dare una lezione a quel giocatore con il pugno alzato e le idee fuori moda. Sulle tribune, i tifosi perugini vengono accerchiati, insultati, provocati. Appaiono striscioni velenosi: “Sollier boia”, “A noi i muscoli, a te la falce e martello”.

In campo, ogni contrasto è un duello. Ogni pallone, una questione ideologica. Sollier non si nasconde, anzi. Corre, ringhia, contrasta. Ma anche lui capisce che qui, oggi, l’aria è diversa. Nervosa. Pesante. Avvelenata.

Il Perugia lotta, tiene il campo, e proprio allo scadere del primo tempo trova il gol con Scarpa. Sarebbe stato il pareggio. Una rete limpida, pulita, che spegne lo stadio. Ma l’arbitro Menicucci annulla. Nessuno capisce perché. Proteste, mani nei capelli, silenzio ammutolito: resta lo 0-0, ma l’ingiustizia pesa come un macigno.

Alla mezz’ora, la partita aveva preso una piega definitiva. Garlaschelli entra in area, cade in un contrasto con Frosio. Il contatto sembra minimo, ma per Menicucci è rigore. Chinaglia va sul dischetto e scarica un bolide imprendibile sotto la traversa. L’Olimpico esplode. L’urlo è primitivo, liberatorio, vendicativo.

Dal “Guerin Sportivo”: fotocronaca di Lazio-Perugia



Poi al 69’, Sollier lascia il campo. Lo sostituisce Pellizzaro. Fischi assordanti accompagnano l’uscita del “comunista”, ma lui non si volta. Non abbassa lo sguardo. Non cambia passo. Raggiunta la panchina, si ferma. Respira. Poi si gira verso la curva e alza il pugno. Ancora una volta. Non come sfida, ma come fede. Non per provocare, ma per ricordare. Che si può perdere una partita, ma non bisogna mai perdere la coerenza.

Tafferugli sulle tribune


Qualcuno lo insulta. Qualcun altro, più in alto, lo guarda in silenzio. Forse anche con rispetto. Perché ci vuole coraggio a presentarsi con il pugno chiuso nell’arena dei leoni. E ce ne vuole ancora di più a non abbassarlo mai.



Qualche tempo dopo, in un’intervista a Lotta Continua, gli chiesero se avesse avuto paura.

“Paura di chi mi insulta? No. Ho paura solo di smettere di credere in quello che sono”.

Quel giorno a Roma, Paolo Sollier non fu solo un calciatore. Fu un simbolo. Una faglia aperta tra due Italie. E anche se il tabellino diceva Lazio 1, Perugia 0, la storia, forse, racconta un risultato diverso.

Mario Bocchio












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