
Novi Ligure, autunno del 1922. Il vento che soffia giù dalle colline piemontesi sa di mosto, nebbia e leggenda. Nelle vie acciottolate della cittadina, il nome di Carletto Gambarotta echeggia ancora come una preghiera laica. “Quel Gamba lì” dicevano i vecchi al caffè, “non correva, volava. E quando toccava la palla, il tempo si fermava”.
Chi era davvero Carletto Gambarotta? Difensore, poeta del pallone, enfant prodige del calcio romantico. Ma più di ogni altra cosa, Carletto fu il simbolo della Novese, una squadra che per una stagione – una sola, irripetibile, incredibile stagione – fece tremare i giganti e scrisse la più folle pagina del calcio italiano.

Nel 1921, il calcio italiano era diviso in due: da una parte la FIGC, dall’altra la neonata CCI, la Confederazione Calcistica Italiana, sorta per protesta contro l’ingestibile numero di squadre nei campionati ufficiali. Fu in quel caos creativo che la Novese trovò il varco per l’eternità.
Con una rosa fatta di studenti, ferrovieri e operai della zona – e con Gambarotta una diga in difesa – la Novese iniziò a vincere. Non erano i più forti, non erano nemmeno i più allenati. Ma erano affamati, determinati, e avevano un cuore grande quanto il campo dello stadio, dove la leggenda prese forma.

La finale del campionato CCI li vide affrontare la fortissima Sampierdarenese, squadra ben più attrezzata e con nomi altisonanti. Ma Carletto, col suo essere il punto di riferimento di tutta la squadra, scrisse la parola “epopea” su un pallone di cuoio che ora giace, impolverato, in una teca del piccolo museo della memoria.
Novese Campione d’Italia 1922. Un titolo ufficiale, anche se oggi la storia sembra dimenticarlo. Una squadra di provincia vince lo scudetto senza mai giocare in Serie A, perché allora il campionato si chiamava Prima Divisione. Un’anomalia. Un miracolo. Una favola.

Di Gambarotta si sa poco, perché in quegli anni non c’erano dirette, highlights o profili Instagram. C’erano solo i racconti, i taccuini dei cronisti e le bocche dei tifosi, che parlavano di lui come si parla dei santi o degli spiriti dei boschi. Fu lui, nella partita decisiva a Cremona il 22 maggio 1922, a segnare il gol decisivo nella finale del campionato contro la Sampierdarenese.
Si dice che in un’amichevole contro il Torino abbia segnato da centrocampo, “perché il portiere parlava troppo”. Che nel momento clou della carriera rifiutò offerte dal Genoa, dalla Pro Vercelli, e perfino da una squadra svizzera che gli offriva il doppio dello stipendio. “La mia maglia è biancoazzurra, come il cuore di mia madre”, avrebbe risposto.

Dopo il trionfo, la Novese tornò a essere quello che era: una squadra gloriosa, sì, ma di provincia. Gambarotta finì a giocare nell’Alessandria (due sole presenze), nel Rapallo e nella Vogherese, ogni tanto allenava i ragazzi al campetto. Ma bastava che toccasse la palla, e tutto ricominciava: i vecchi piangevano, i bambini si innamoravano del calcio.

E oggi? Oggi la Novese gioca nei dilettanti. Il Girardengo cade a pezzi, ma se passi di notte dove allora c’era il campo della Novese, qualcuno giura di sentire ancora un eco. “Gamba! Vai Gamba!”, come se il tempo avesse lasciato lì una ferita aperta nella storia.
Carletto Gambarotta non ha una statua, né una curva a lui intitolata. Ma a Novi, chi ama il calcio lo sa: non serve una targa per ricordare un dio in terra. Basta chiudere gli occhi, immaginare una maglia bianca e azzurra che danza tra gli attaccanti, e un ragazzo con il sorriso largo che corre sotto la pioggia, portando con sé il sogno di un’intera città.
Mario Bocchio