Londra, patria del football. E ora anche del mondo
Lug 15, 2025

Il Chelsea vince il primo Mondiale per club: quando gli inglesi tornano maestri, con in cattedra un italiano


Per anni, decenni, forse un secolo, l’Inghilterra ha vissuto una sorta di sindrome da pioniere: inventrice del calcio moderno, ma condannata a guardare gli altri prendersi la gloria. I Mondiali vinti dai brasiliani col samba, dai tedeschi col rigore, dagli italiani col cuore e il tatticismo. E loro, i padri del gioco, a ripetere come un mantra quel “Football’s coming home” che sembrava sempre a un passo… ma mai davvero in casa.

La gioia del Chelsea dopo il successo mondiale contro il Paris Saint-Germain


E invece, il football è tornato davvero. Ma non alla Nazionale dei Tre Leoni, che pure continua a riempire gli stadi e a generare fenomeni da copertina, bensì in un angolo ben preciso di Londra: a Stamford Bridge, la casa del Chelsea che ha appena vinto il primo Mondiale per club, battendo il meglio del calcio globale. Lo ha fatto con orgoglio, disciplina, potenza. E lo ha fatto sotto la guida di un italiano: Enzo Maresca, napoletano di origine e cosmopolita per vocazione, nuovo profeta del pallone moderno.

Maresca, ex regista elegante e cervellotico del calcio anni Duemila, è oggi il volto della nuova generazione di allenatori italiani: quelli che non si accontentano di difendere, che sanno di lavagna ma anche di cuore, che crescono più sui campi d’allenamento che nei salotti Tv. È arrivato al Chelsea con discrezione, portando con sé un’idea precisa di gioco e un rispetto quasi maniacale per i dettagli. In pochi mesi ha cucito addosso ai Blues un abito su misura: fatto di possesso ragionato, verticalità intelligente, pressing educato. Una squadra con il passo da Premier e l’anima da Serie A.

Ray Wilkins con la maglia del Chelsea


Il Chelsea di Maresca è diventato, nel tempo di una stagione, il simbolo di un’Inghilterra che vuole tornare grande non solo con le parole. E se la Nazionale arranca dietro a sogni infranti e semifinali mancate, il club di Londra ha riportato sul trono mondiale l’arroganza buona degli inventori del gioco. Ma con un’anima europea, e un cervello italiano.

C’è un simbolismo potente, quasi letterario, in questa vittoria. Il Chelsea è sempre stato un club meticcio, bastardo nel senso più nobile del termine. Dagli anni di Gianfranco Zola, che stregava Stamford Bridge con tocchi di poesia sarda, a quelli più recenti di Jorginho e Thiago Silva, passando per le glorie africane come Didier Drogba o i maestri di centrocampo come Frank Lampard, l’inglese più continentale di sempre. Oggi i protagonisti si chiamano Cole Palmer, enfant prodige del nuovo corso, Moises Caicedo, pilastro sudamericano con i piedi da numero 10, e Reece James, che incarna il talento fisico e tecnico della nuova Inghilterra.

Gianfranco Zola idolo di “Stamford Bridge”


Ma c’è anche qualcosa di antico in questa impresa. Un’eco che risuona dai tempi di Sir Bobby Charlton, dai tackle ruggenti di Terry Butcher, dalle geometrie aristocratiche di Glenn Hoddle. È come se il Chelsea avesse ritrovato quell’istinto originario che gli inglesi hanno sempre rivendicato: il diritto di essere maestri, non solo all’anagrafe del gioco, ma anche nel suo presente più vivo.

Per ironia della storia, questa lezione l’hanno imparata grazie a uno di quei “camerieri” che per anni venivano sbeffeggiati nei pub del Nord. Ricordate? Gli italiani, nei racconti del secolo scorso, erano quelli del catenaccio, delle sceneggiate, delle pause infinite. Gente che difendeva il risultato più che cercare la gloria. Oggi sono diventati strateghi. Cuochi stellati. E Maresca ne è la dimostrazione più elegante. Servono ancora, gli italiani. Ma servono trionfi.



Così, in una calda notte d’estate, il Chelsea ha alzato il trofeo che mancava all’Inghilterra calcistica. Non quello della FIFA per squadre nazionali, ma un Mondiale che ha un peso simbolico fortissimo. Lo ha fatto battendo quella che sembrava affermarsi come la nuova superpotenza, il Paris Saint-Germain. Con la calma dei vincenti, la ferocia dei predestinati e una fiducia quasi regale nella propria superiorità tecnica. Alla fine, è sembrato quasi naturale.

In tribuna, tra i cori e le bandiere, c’era un vecchio tifoso che indossava la maglia di Ray Wilkins. Stringeva il pugno, gli occhi lucidi. “Finalmente ci siamo ripresi ciò che è nostro”, ha detto. E intendeva il gioco. Il football. L’idea che tutto è cominciato qui, e che qui poteva – doveva – tornare.

Oggi, a Londra, non si discute se il calcio sia inglese o globale. Si celebra la sintesi: maestri diventati allievi, e poi di nuovo maestri. Con accento italiano.

Mario Bocchio

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