
Al “Bernabeu” di Madrid c’è Sandro Pertini, presidente partigiano e tifoso vero, con il pugno chiuso della gioia e la pipa accesa della storia. C’è la pipa di Enzo Bearzot, fumosa e silenziosa come il suo modo di guidare il gruppo: senza clamore, con fermezza. C’è Paolo Rossi, che ha appena chiuso il cerchio del suo riscatto, ha segnato ancora, è tornato Pablito per sempre. C’è Marco Tardelli, che corre urlando in preda a una commozione che somiglia a un urlo generazionale. C’è Altobelli, Spillo, che firma il terzo gol e la definitiva consacrazione.
Al Bernabeu, soprattutto, c’è Nando Martellini.
Tre volte, con voce rotta e solenne, scandisce le parole che ancora oggi ci rigano la pelle: “Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!” . Come una benedizione laica. Come un tatuaggio nella memoria collettiva.

Sono passati più di quarant’anni, ma quella notte è ancora oggi. Ci torna in mente come un ricordo nitido, come una canzone che non smetti mai di cantare. Era l’11 luglio del 1982, e avevamo poco – o forse tutto – da perdere. Erano gli anni Ottanta all’inizio, un’Italia che si risvegliava dopo gli anni di piombo, con le cicatrici ancora aperte ma con un desiderio nuovo di vivere, di ballare, di crederci.
Quella nazionale sembrava un’Italia qualunque: criticata, incompresa, a tratti osteggiata. Una squadra chiusa nel silenzio stampa, circondata dal sospetto. Eppure, proprio come l’Italia di allora, aveva dentro una riserva nascosta di orgoglio, di talento, di voglia di riscatto.

Quella partita, quel mondiale, non furono solo un evento sportivo. Furono la narrazione di un popolo che, contro tutto e tutti, si scoprì forte, unito, capace di bellezza. Furono l’epica di una nazione che ritrovava sé stessa attorno a un televisore acceso, in un bar o in una casa con le finestre spalancate sull’estate.
Ci resta addosso qualcosa di più della vittoria. Ci resta la voce di Martellini come quella di un nonno che ci ha raccontato la favola più bella. Ci resta l’immagine di Pertini che gioca a carte sull’aereo del ritorno con Bearzot, Zoff e Causio, come in una trattoria italiana tra amici veri. Ci resta quel senso di appartenenza che oggi rincorriamo con nostalgia.
Erano gli anni in cui il futuro sembrava una promessa possibile. Erano gli anni delle biciclette nel cortile, dei Mondiali visti con il cuore in gola, dei padri che gridavano al gol e dei figli che cominciavano a sognare.
E se oggi torniamo a quella notte, è perché ci ricorda chi eravamo. E, forse, chi possiamo ancora essere. Perché quel grido – Campioni del mondo! – non fu solo una telecronaca. Fu un abbraccio. Fu un sogno compiuto. Fu l’Italia, per una volta, perfetta.
Mario Bocchio