
C’era una volta un austriaco a Cesena. Parlava con accento di montagna, mangiava tagliatelle come un contadino romagnolo e correva come un dannato su ogni pallone. Si chiamava Walter Schachner, detto “Schoko”, e per due stagioni – 1981-’82 e 1982-’83 – divenne molto più di un centravanti: fu un sogno collettivo, un’illusione bianco-nera, un pezzo di modernità in una città che viveva ancora nel profumo delle stalle e dei mercati del sabato. Gli ultras della squadra romagnola cambiano in suo onore il proprio nome da Brigate Bianconere a Weisschwarz Brigaden.

Quando arrivò – il Cesena neopromosso lo pagò 700 milioni di loire – pochi sapevano chi fosse. Uno diceva: “È quello che ha giocato al Mundial in Argentina”, un altro: “No, è uno che corre tanto, viene dall’Austria Vienna, lo chiamano il motore a scoppio”. Ma bastarono tre partite per capire: Schachner non era solo un attaccante. Era una scossa. Faceva reparto da solo, attaccava gli spazi, pressava come se dovesse liberare Vienna dagli Asburgo. E soprattutto segnava. Magari non con l’eleganza di un artista, ma con la fame del contadino.

Cesena, in quei mesi, era una città in bilico tra due ere. I vecchi parlavano ancora in dialetto stretto, i giovani scappavano a Bologna per l’università, e il sabato sera si faceva l’amore nei parcheggi della Fiorita. Lo stadio Dino Manuzzi era il vero centro della vita: lì si piangeva, si bestemmiava, si sognava. E con Schachner in campo, si sognava sul serio. Addirittura doppietta alla Juve, corse sotto la Mare con il pugno chiuso e i baffi bagnati di pioggia.

I bambini volevano il 9 con la “k” nel cognome, le signore in curva dicevano: “Almen ch’l è bell e bòn” — almeno è bello e bravo — e i bar della città cominciarono a chiamare Schachner una birra piccola e veloce, da mandare giù “tutta in corsa”.
La stagione dell’81-’82 fu epica. Cesena raggiunse la salvezza e se la giocò con i grandi, con Walter sempre a testa bassa e gambe in avanti. Capocannoniere della squadra insieme a Oliviero Garlini, con nopve centyri. L’anno dopo, ci fu purtroppo la B, per lui 30 presenze, 8 gol e un Manuzzi che lo applaudiva anche quando sbagliava, come si fa con i figli testardi. Era uno di loro, anche se veniva da Leoben, Austria. Aveva imparato a dire “mo vàl” e a mangiare piadina con la rucola.

Poi, come sempre accade, il sogno finì. Walter se ne andò, al Torino per tre miliardi, ma non per davvero. Restò nei racconti al bar, nei poster scoloriti in cameretta, nelle storie raccontate ai nipoti con un sorriso e un filo di malinconia. Oggi, se chiedi a un cesenate di cinquant’anni “chi è stato il più forte?”, lui ti risponderà piano: “Schachner… E chi sennò?”
Non vinse trofei, non fece record, ma entrò nel cuore della Romagna come solo gli stranieri gentili sanno fare. Quelli che non vengono a prendere, ma a dare. Che non parlano tanto, ma fanno. Che non restano a lungo, ma restano per sempre.
Mario Bocchio