
Sembrava un film già scritto. Una di quelle storie dove il protagonista sa che finirà male, ma entra comunque in scena, con l’orgoglio gonfio, gli occhi accesi e la voglia disperata di lasciare l’ultima firma. Era il 21 giugno 1994, allo stadio Foxboro di Boston. Argentina contro Grecia. Diego Armando Maradona contro il tempo.
Il numero 10 aveva quasi 34 anni, portava sulle spalle i fantasmi di mille battaglie, la polvere di Napoli, le squalifiche, le ricadute, le resurrezioni. Ma quel giorno, per novanta minuti scarsi, il mondo vide ancora il Re nel suo regno. I capelli più corti, il fisico appesantito, ma lo sguardo identico a quello di Città del Messico 1986: feroce, affamato, divino.

L’Argentina era una macchina da guerra, orchestrata dal genio di Basile e dall’estro intatto di Batistuta, Caniggia, Redondo. Ma bastava uno sguardo a lui, Diego, per capire che la squadra aveva ancora un cuore solo.

Al minuto 60, accadde la magia. Azione corale, palla al limite dell’area, sinistro secco e angolato. Gol. Diego corse verso la telecamera, fuori di sé, urlando come un indemoniato. L’inquadratura, ancora oggi, fa tremare. Occhi fuori dalle orbite, bocca spalancata, una furia teatrale. Un urlo che non era solo gioia, ma sfida, rivendicazione, dolore. Come se volesse dire: “Sono ancora io. Non mi avete ucciso”.
Pochi giorni dopo, invece, fu proprio quell’urlo a diventare il suo canto del cigno.

Il 30 giugno arrivò il verdetto della FIFA: Maradona positivo all’efedrina, dopo il prelievo cinque giorni dopo la gara contro la Nigeria. Squalificato dal Mondiale, cacciato dal ritiro, umiliato davanti al mondo. Lui parlò di complotto, di vendetta, di colpo basso. “Mi hanno tagliato le gambe”, disse con la voce rotta, come un eroe caduto in trappola. Il bambino ribelle di Villa Fiorito, che aveva sfidato il potere e lo aveva piegato più volte, era stato espulso dalla sua ultima festa.
Fu l’inizio della fine. Senza di lui, l’Argentina si spense. Caniggia si ruppe, Batistuta restò solo. Gli ottavi contro la Romania divennero un addio silenzioso. Il sogno evaporò come fumo sopra il prato americano.
Per Diego, iniziò un’altra battaglia, stavolta contro sé stesso. La depressione, la solitudine, i ricoveri, i ritorni effimeri in panchina. Ma quella partita contro la Grecia restò il suo ultimo capolavoro. L’ultimo graffio del leone.
Oggi, rivedere quell’urlo è come guardare una fotografia sbiadita, ma viva. Diego urlava alla telecamera, ma parlava a noi. “Guardatemi bene”, sembrava dire. “Perché questo è l’ultimo giorno in cui sarò Maradona”.
E noi lo abbiamo guardato. Per sempre.
Mario Bocchio