
A Palermo lo consideravano il turco gentile. Arrivava dal Bosforo con lo sguardo fiero dei padroni di Galata e il piede caldo come un caffè bollente nelle notti di Taksim. Si chiamava Metin Oktay, ma bastava “Metin” per far brillare gli occhi ai ragazzi che lo aspettavano all’uscita degli allenamenti, in un italiano impastato al dialetto, “Mètiin, facci ‘n tiro!”.

Era l’estate del 1961, e l’Italia non lo conosceva ancora. In Turchia, invece, era già leggenda. Capocannoniere seriale del campionato turco, eroe nazionale, simbolo vivente del Galatasaray. Ma Metin aveva fame d’Europa, di calcio nuovo, e accettò l’invito del Palermo con la curiosità di un poeta in cerca di un’altra lingua. “Vado a capire che forma ha la nostalgia”, avrebbe detto in una delle rare interviste rilasciate in Sicilia.

Non fu un’operazione da copertina, né un colpo di scena mediatico. Arrivò in punta di piedi, senza entourage, senza clamore, con una valigia di cuoio e la barba rasata da poche ore. Al “Barbera” – che allora si chiamava ancora “La Favorita” – si presentarono in duemila per il primo allenamento.
Chi sapeva, raccontava le sue prodezze a Istanbul, le punizioni a foglia morta, i gol di tacco, la classe da mezzala sudamericana incastonata in un fisico da centravanti europeo.

Il Palermo era una squadra che lottava per salvarsi, tra i ritmi lenti del sud e le ruvidezze del calcio italiano. Metin sembrava uscito da un altro film: elegante, rapidissimo, abile nel palleggio, con una visione di gioco che il calcio italiano faticava ancora a comprendere. Segnò pochi gol, appena 3 in 12 presenze, ma chi lo vide giocare non si scorda di lui. “Quando toccava la palla, sembrava suonare un oud”, ricordava anni dopo un vecchio tifoso palermitano.


Il problema non era lui, ma l’epoca. L’Italia era ancora chiusa, sospettosa, ostile ai giocatori stranieri. Il calcio si giocava con le marcature a uomo e i difensori ti randellavano dal primo minuto. Metin sorrideva, a volte si lamentava in turco, ma poi tornava ad alzare la testa, cercando il compagno meglio piazzato. “Era un regista travestito da centravanti”, scrisse una volta il Corriere dello Sport.
Palermo, con le sue arance amare, i venti africani e la malinconia viscerale della sua gente, lo accolse come uno di casa. Amava camminare sul lungomare di Mondello, imparava l’italiano leggendo i giornali sportivi, e ogni tanto si perdeva nelle trattorie del Capo. Ma dopo una sola stagione, decise di tornare a Istanbul. “L’Europa è bellissima, ma io sono nato per il Bosforo”, disse con un sorriso triste prima di salire sull’aereo che lo avrebbe riportato a casa.
A Istanbul fu accolto come un figlio tornato dalla guerra. Ritrovò la maglia del Galatasaray, i derby infuocati contro il Fenerbahçe, il boato dei tifosi che lo veneravano come un profeta del gol. Continuò a segnare, a incantare, a scrivere la storia del calcio turco. Concluse la carriera con 388 gol in 403 partite di campionato, sei titoli di capocannoniere e un posto fisso nella memoria collettiva.
Morì giovane, a soli 44 anni, in un incidente stradale. Ma a Istanbul ancora oggi si raccontano le sue gesta come si raccontano le storie di Attila o Maometto. A Palermo, invece, resta il ricordo lieve e struggente di quell’unico anno, quasi un’apparizione, come una stella cometa che attraversa il cielo e poi scompare.
Un giorno, un vecchio custode del Barbera lo disse sottovoce, come si parla di un amore che non si è mai spento: “Metin non è stato un calciatore per noi. È stato un segreto”.
Mario Bocchio