
Negli anni Ottanta, il campionato italiano non era solo il più bello del mondo. Era il cuore del mondo. Una calamita per i fuoriclasse, un laboratorio tattico, una fiera popolare e una guerra santa. Il calcio era ancora liturgia collettiva, e la domenica alle 14,30 aveva il sapore delle faccende importanti, quelle che mettono d’accordo padri e figli, città e bar, ferite e speranze.
Si parlava di calcio tutta la settimana, ma si vedeva solo la domenica. Le radioline gracchiavano emozioni, Sandro Ciotti graffiava la voce, e “90° Minuto” arrivava come un dono televisivo, piccolo, prezioso, fatto di immagini che sembravano reliquie. Non c’erano highlights, non c’erano replay su richiesta. Solo l’attesa, la memoria, e i racconti dei grandi.


Gli juventini Michel Platini (a sinistra) e Zibì Boniek
Era il tempo in cui l’Italia aprì le porte agli stranieri. Prima uno solo per squadra, poi due. E con loro arrivarono i cavalieri del nuovo calcio. Platini alla Juve, Rummenigge all’Inter, Wilkins al Milan. Sembrava che ogni maglia trovasse il suo profeta. Ma fu il Sud a diventare leggenda.

Nel 1984 sbarcò a Napoli Diego Armando Maradona. Non un calciatore: una rivoluzione. I suoi piedi parlavano un linguaggio alieno, capace di fondere genio e caos, libertà e incubo per chiunque cercasse di fermarlo. Diego trasformò Napoli nella capitale del calcio mondiale. Eppure, Maradona non fu un alieno solitario. In quegli anni, l’Italia ne ospitava tre: e tutti venivano dal Brasile.

Se Maradona fu l’urlo, Zico fu la carezza. Quando arrivò a Udine, nell’estate del 1983, il Friuli si fermò. Cinquantamila persone lo accolsero all’aeroporto. Non avevano mai vinto nulla, ma ora avevano il migliore. Il “Galinho”, genio precoce del Flamengo, scelse una provincia del Nordest italiano per insegnare calcio col sorriso. Due stagioni bastarono a fare leggenda. Dribbling vellutati, punizioni chirurgiche, passaggi tagliati con il rasoio. Zico non vinse, ma fece sognare, e in quegli anni – in Italia – era già tanto.
E poi c’era Falcão, “il Divino”, l’uomo che trasformò Roma in una squadra da scudetto e da bellezza. Alto, elegante, silenzioso. Il suo calcio era geometria poetica. Quando arrivò nel 1980, la Roma era una grande incompiuta. Con lui, diventò una signora. Bruno Conti correva sulla fascia come il vento di Nettuno, Pruzzo faceva a sportellate con i difensori, ma era Falcão a dettare la musica. Ogni suo tocco sembrava dire: “Aspettate, vi spiego io come si gioca”.
Nel 1983, sotto la guida di Liedholm, la Roma vinse lo scudetto dopo quarant’anni. La città esplose. Le fontane impazzirono, i motorini sfrecciavano tra i sampietrini, le chiese suonarono campane fuori orario. Falcão era diventato un imperatore gentile, una divinità pagana con il passo del ballerino e il cervello del filosofo.

Quello scudetto fu molto più di un trofeo. Fu un’idea di calcio, un equilibrio perfetto tra sudamericano e nordico, tra gioco e disciplina. Gli stadi cantavano il suo nome: “Falcão, Falcão!” E anche se la Coppa dei Campioni, l’anno dopo, svanì ai rigori in casa contro il Liverpool, nessuno osò biasimarlo. Perché chi ha visto Falcão, ha visto la bellezza.
In quegli anni, la provincia non era periferia. Era favola. Il Verona di Bagnoli e Elkjaer, campione d’Italia nel 1985, sembrava un miracolo in technicolor. L’Avellino di Juary, il Como di Corneliusson, il Pisa di Berggreen: ogni squadra aveva un accento, un’idea, un eroe. La Serie A era un mosaico di lingue e di sogni, dove la tattica conviveva con l’improvvisazione, e il genio con il fango.

La difesa era arte. Scirea, Baresi, Vierchowod, Gentile: nomi che oggi sarebbero marchi registrati. Si marcava a uomo, si soffriva, si vinceva 1-0. I portieri volavano come supereroi malinconici: Zenga, Garella, Giuliani, Tancredi.

Ma più di tutto, c’erano i personaggi. I presidenti-patriarchi: Dino Viola, Giampiero Boniperti, Corrado Ferlaino, Angelo Massimino a Catania, Antonio Sibilia ad Avellino, Romeo Anconetani a Pisa e Costantino Rozzi ad Ascoli. Gente che ci metteva la faccia, che fumava nei corridoi e decideva in un secondo il destino di una città. E poi c’erano i tifosi, veri, nati nella fede e cresciuti nella speranza, con le sciarpe fatte a mano e i sogni cuciti nelle pezze delle gradinate.

Nel 1989, con l’arrivo degli olandesi al Milan – Gullit, Rijkaard, Van Basten – qualcosa cambiò. Il calcio entrò nell’era moderna, la Serie A si fece più globale, più televisiva, più business. Ma quel decennio, gli anni Ottanta, restano l’epoca dell’incanto.
L’epoca in cui un brasiliano faceva piangere Udine, un altro faceva danzare Roma, e il terzo, un argentino, ribaltava la storia da Napoli. L’epoca in cui il calcio non era ancora un’industria. Era un romanzo. E noi eravamo i lettori più fedeli.
Mario Bocchio