
Di fronte alla chiesa di Sant’Andrea, nelle prime luci d’autunno, Vercelli pare ancora stringere tra le mani il suo passato glorioso come una reliquia. E se il pallone, nella nebbia padana, ha avuto una patria, quella patria fu la Pro. E se la Pro ha avuto un re, quel re si chiamava Luigi Bozino.
Vestito sempre con eleganza, baffi curati, sguardo fermo e voce da oratore, Bozino non fu solo il presidente della Pro Vercelli nei suoi anni d’oro: fu l’architetto morale di un’epoca, l’uomo che trasformò una squadra di ragazzi di provincia in una macchina perfetta, capace di travolgere il Nord industriale e conquistare sette scudetti.

Bozino arrivava dalla buona borghesia vercellese, con il padre che era stato addirittura un agente segreto di Cavour, era un sostenitore del Regno pur avendo in fondo l’animo da socialista illuminato e il cuore da pedagogo. Credeva nell’atletica come scuola di vita, nel calcio come disciplina morale. Quando divenne presidente della “Società Ginnastica Pro Vercelli”, la pensò come un vivaio di valori più che di trofei. Ma poi vennero entrambi. Dal 1908 al 1922, sotto la sua guida, i “Leoni bianchi” dominarono l’Italia, con uno stile spartano e letale. Non compravano, formavano. E vincevano.

Il campo? Parco Camana, che allora era poco più di un prato. Ma da lì uscivano campioni come Giuseppe Milano, Ara, Innocenti, Rampini… tutti forgiati sotto lo sguardo vigile di Bozino, che non urlava mai, ma alzava le sopracciglia e bastava. I suoi giocatori lo chiamavano “il Maestro”, i rivali “l’Implacabile”. Con la FIGC fu presidente, riformatore, mediatore. Ma mai compromissario. Non accettò il professionismo a cuor leggero. Per lui, lo sport doveva restare puro, come l’acqua del Sesia.
Nel 1921, quando il calcio italiano rischiò la scissione, fu lui, con mano ferma, a negoziare la pace tra le federazioni. Politico senza partito, sempre con la mente al campo e l’anima alla città. Diceva: “Se un ragazzo diventa uomo grazie al pallone, allora non abbiamo solo vinto una partita”.
Morì nel 1937, ma a Vercelli nessuno lo ha mai davvero sepolto. Il suo nome risuona ancora ogni volta che un ragazzino infila gli scarpini e corre nel vento. Perché Bozino non costruì una squadra: costruì un’idea. E le idee, quando hanno la stoffa della giustizia e della bellezza, non invecchiano mai.

Non alzava la voce. Non ne aveva bisogno. Bastava il modo in cui entrava nello spogliatoio, con il cappello sulle ventitré e i guanti di pelle ben stretti sotto il braccio. I ragazzi si zittivano da soli, si raddrizzavano come soldati di leva. Lui si avvicinava, guardava negli occhi uno a uno. A volte parlava. Altre volte no. E quando parlava, era per dire poco. Ma quel poco pesava come un chilo d’oro.

Per lui la vittoria non era un diritto, ma una conseguenza. La conseguenza dell’abitudine al sacrificio, della disciplina senza fronzoli. Eppure, sapeva premiare. A modo suo. Il rituale era semplice e segreto: dopo certe vittorie particolarmente dure, dopo una prestazione che rivelava carattere, intelligenza, spirito di squadra, Bozino si avvicinava a uno o più giocatori – e con la lentezza di un cerimoniere – estraeva dal cappotto una scatolina lunga, scura, di legno liscio. Dentro: sigari. Pregiati. Importati da Cuba o dalla Liguria, a seconda del tempo e dei traffici.
Era il premio più ambito. Non denaro, non regali vistosi. Un sigaro. Uno solo. E non tutti potevano fumarlo. Era un’investitura, una dichiarazione di stima. “Questo è per te” diceva. E basta.
C’era una volta l’onore, e per trovarlo bastava andare a vedere una partita della Pro Vercelli. Siamo nel 1910, campionato in bilico. La FIGC fissa lo spareggio contro l’Internazionale per il 17 aprile. Ma Bozino aveva fatto sapere con largo anticipo che quel giorno i suoi ragazzi sarebbero stati impegnati in un torneo studentesco. Venne fissata per il 24, ma dalla Pro fecero sapere che diversi calciatori erano impegnati con l’Esercito in un torneo militare. La deroga non fu concessa. Allora Bozino non protestò. Non minacciò né insultò. Fece di meglio.

La domenica della partita, a Vercelli, al posto di Milano, Ara e soci, dallo spogliatoio undici adolescenti del vivaio. Undici ragazzi in maglia bianca, molti ancora senza baffi, con le gambe tremanti ma lo sguardo dritto.
“È la nostra squadra” disse Bozino con calma, “giocate pure”.
La Pro perse, certo. Dieci a tre. Ma lottò, e segnò tre volte. L’Inter vinse sul campo, ma l’Italia sportiva capì da che parte stava l’onore. Nei bar, nei caffè, sui tram si parlava solo della Pro, di quei ragazzini, e soprattutto di quell’uomo, Bozino, che aveva scelto la coerenza alla vittoria, la formazione al compromesso.
Si racconta che uno di quei giovani, rientrato a casa, trovò sul comodino una scatolina di legno. Dentro: un sigaro. Il più giovane a riceverlo.