
Nel giugno del 1978, mentre il mondo guardava all’Argentina insanguinata dalla dittatura militare, un altro Paese portava sul campo un peso silenzioso e immenso: l’Iran dello scià, ormai prossimo a cadere.
A Teheran, le manifestazioni si moltiplicavano. Le piazze ribollivano di rabbia, le moschee di sussurri rivoluzionari. Il regime di Mohammad Reza Pahlavi mostrava crepe sempre più profonde. Ma intanto, a migliaia di chilometri, undici ragazzi in maglia bianca si affacciavano per la prima volta alla Coppa del Mondo. Un debutto atteso, mai così carico di significati.

Mendoza, 3 giugno. Il battesimo del fuoco
La prima partita fu contro i Paesi Bassi. Una corazzata d’esperienza, orfana sì di Johan Cruyff, ma ancora capace di far tremare le vene. Gli iraniani entrarono in campo tesi, ma fieri. C’era qualcosa di antico nei loro occhi: una fame di rispetto, un bisogno di essere visti. Non solo come “esotici partecipanti”, ma come uomini.
Resistettero, per un po’. Poi arrivò il rigore trasformato da Rensenbrink. La diga si ruppe. Finì 3-0, eppure nessuno parlò di umiliazione. La stampa iraniana, ancora legata alla retorica monarchica, provò a rivendere la sconfitta come “onorevole”. Ma nelle case, tra le antenne sgangherate e le famiglie che assistevano in silenzio, il sentimento era più profondo: un misto di dolore e orgoglio.

Cordoba, 7 giugno. La voce del popolo
Contro la Scozia, l’Iran cambiò volto. Più coraggio, più ritmo, più anima. Al 60’, Iraj Danaeifard segnò il primo gol della storia iraniana ai Mondiali. Un tiro secco, preciso, che trafisse il portiere scozzese e spalancò le finestre a Teheran. In quel momento, in mezzo alle tensioni, la gente si abbracciò. Non per la monarchia, non per il regime. Ma per sé stessa.

Il pareggio per 1-1 arrivò a causa di un autogol sfortunato di Eskandarian. Ma non tolse nulla alla sensazione di essere entrati, finalmente, nel grande libro del calcio mondiale.
Cordoba, 11 giugno. L’ultima battaglia
Contro il Perù, l’Iran si giocò tutto. Voleva vincere. Per i ragazzi nei campetti polverosi di Abadan e di Mashhad. Per chi era in prigione. Per chi non poteva parlare.

Gol di Rowshan al 41’, la speranza che si accende. Poi la rimonta peruviana, implacabile. Cubillas ne fa tre, la partita finisce 4-1. L’Iran è fuori. Ma è cambiato.

Quel Mondiale non fu solo sport. Fu l’ultima fotografia di un Paese prima del crollo. Meno di un anno dopo, lo scià sarebbe fuggito, e Khomeini avrebbe preso il potere. La nazionale sarebbe diventata un’altra cosa, con altre regole, altri simboli.
Ma nel giugno del ’78, per tre partite, l’Iran fu libero di sognare. Il calcio si fece specchio e rifugio. Un luogo in cui contare, finalmente, per qualcosa di più di petrolio e geopolitica.
E quei ragazzi, oggi dimenticati dai più, camminarono con dignità in mezzo alla tempesta. Furono i primi a scrivere, col sudore e con l’anima, la parola “Iran” nella storia dei Mondiali.
Mario Bocchio