
C’era un tempo in cui le reti non erano quelle Wi-Fi, ma quelle sbrindellate appese alle porte di ferro, pitturate a mano ogni primavera da qualche volontario. Un tempo in cui il pallone era un oggetto sacro, custodito dal don in sacrestia e affidato ai più meritevoli. Era il tempo degli oratori, delle ginocchia sbucciate e delle magliette intrise di polvere e sudore, quando il calcio non era uno sport: era un rito di passaggio.

A San Rocco, parrocchia popolare di una città che potrebbe essere qualunque città d’Italia e del Piemonte, la domenica mattina si sentiva prima la campanella della messa, poi il rimbombo dei tiri sul muro della canonica. Il campo, più terra che erba, aveva un albero storto all’altezza del centrocampo e una buca in area piccola che inghiottiva i portieri. Ma era lì che nasceva la magia.

I campioni, a volte, sbucavano da questi angoli dimenticati. Nessuno sapeva spiegare come. Un giorno erano ragazzini qualsiasi, il giorno dopo avevano quel tocco, quel controllo, quella finta che lasciava tutti a bocca aperta. Il don li chiamava “i prediletti”, ma era il campetto a decidere chi valeva davvero. Tra una partita e una fetta di pane e Nutella, si costruivano talenti e si imparava la vita.

“Lì ho imparato a perdere”, racconta oggi Cesare, che ora fa il meccanico, ma una volta faceva il terzino e marcava stretto un certo Gianni, che anni dopo sarebbe finito alla Juve Primavera. “E ho imparato anche a prendermi le mie rivincite. Non serviva il VAR, bastava lo sguardo del prete per fermare le scarpate”.
C’era una regola non scritta: chi tirava il pallone fuori lo andava a recuperare. A volte bisognava attraversare il cortile, altre volte spingersi fino al retro della chiesa, dove le ortiche crescevano libere. Ma nessuno si lamentava. Perché giocare era un privilegio, un dono concesso da chi sapeva che lì, tra i sassi e le porte di legno, si formavano gli uomini.

Molti di quei campioni non sono mai arrivati in Serie A. Alcuni hanno brillato nei dilettanti, altri sono finiti nell’anonimato. Ma chi c’era allora, chi ha vissuto il calcio d’oratorio, sa che ha giocato nel posto più vero del mondo. Dove si impara a passare la palla, ma anche a condividerla. Dove l’assist valeva più del gol, e dove a volte l’arbitro era solo il buon senso collettivo.
Il calcio di oggi ha i centri sportivi, le accademie, i procuratori che arrivano già alle scuole medie. Ma qualcosa si è perso. Forse l’odore dell’erba marcia, forse il suono delle campane che segnavano la fine del tempo, forse solo la libertà di sbagliare senza essere giudicati. Negli oratori, il talento non si cercava. Si lasciava sbocciare, come le margherite in primavera.
E a volte, quel talento diventava un campione.
Mario Bocchio