
Sono passati due anni da quando Silvio Berlusconi ha lasciato questa terra, eppure la sua ombra continua ad allungarsi, come certe sere d’estate quando il sole indugia a tramontare, e il crepuscolo sembra eterno. È difficile parlare di calcio, oggi, senza misurarsi con l’eredità di quell’uomo che, con il suo ingresso nel Milan nel 1986, non si limitò a comprare una squadra: acquistò un mondo intero e lo trasformò secondo la propria visione.
Prima di lui, i presidenti erano industriali e imprenditori locali, amanti della propria squadra, capitani di ventura che inseguivano scudetti come fossero sogni di gloria personale. Le partite si giocavano nei pomeriggi della domenica, i contratti si firmavano con strette di mano, gli stranieri erano pochi e spesso esotici, i bilanci erano precari, ma ancora legati a una dimensione umana, quasi familiare.

Poi arrivò lui, il Cavaliere. Con i suoi elicotteri atterrati a Milanello, con le sue promesse di vittorie mondiali, con il suo sorriso televisivo, i completi perfetti, i discorsi motivazionali ai giocatori radunati come soldati in un esercito. Arrivò con una visione imprenditoriale che nessuno prima aveva osato applicare al calcio: il club come azienda, il brand globale, lo spettacolo come motore del successo sportivo ed economico.

Il Milan diventò il laboratorio del calcio del futuro: Sacchi, Van Basten, Gullit, Rijkaard, Maldini, Baresi. La squadra più forte del mondo, come amava ripetere lui. E dietro al successo, i diritti televisivi, il marketing, il merchandising, la globalizzazione. Il calcio cominciava a diventare business, e Berlusconi ne era il profeta.
Ma ogni rivoluzione porta con sé anche il rovescio della medaglia. Il modello Berlusconi, replicato e imitato ovunque, ha innescato una corsa folle all’aumento dei costi: ingaggi sempre più alti, commissioni milionarie per i procuratori, stadi sempre più lussuosi e costosi, sponsor planetari. Il denaro è diventato la misura di tutto, e chi non poteva reggere quel passo si è trovato costretto ai margini. Le provinciali, che un tempo sognavano scudetti impossibili come il Verona dell’85 o il Cagliari del ’70, oggi sopravvivono a fatica, soffocate da bilanci insostenibili e dalla concorrenza dei superclub.

Così il calcio ha perso, almeno in parte, la sua anima romantica. Sono rimaste le grandi notti europee, i campioni straordinari, i gol da sogno. Ma è scomparso un certo sapore di poesia, quella sensazione che in ogni campionato potesse nascondersi una favola.

Berlusconi non è stato solo un presidente. È stato l’artefice di un nuovo ordine calcistico, un costruttore di imperi, un rivoluzionario che ha trasformato il campionato italiano nel laboratorio di un calcio globale che oggi, a distanza di decenni, mostra tutta la sua grandezza e insieme tutte le sue contraddizioni.
Due anni dopo la sua scomparsa, resta l’impressione di un uomo che ha fatto grandissime cose, ma che, come ogni rivoluzionario, ha pagato – e fatto pagare – il prezzo del cambiamento. Resta la domanda sospesa: era inevitabile? Forse sì. Forse no. Ma il calcio di prima, quello che Berlusconi trovò e quello che lasciò, ormai appartengono a due mondi diversi. E il secondo porta, nel bene e nel male, il suo marchio indelebile.
Mario Bocchio