Ricordi in bianco e nero di un’impresa che profumava di Friuli e di sogni veri
Giu 11, 2025

Quando pioveva su Udine, pioveva davvero. Gocce larghe, lente, di quelle che sembrano cadere più per stanchezza che per rabbia. E negli anni Settanta, di pioggia ne era venuta parecchia, sul campo del “Moretti”, sulle tribune sbrecciate, sulla maglia bianconera che sembrava non riuscire più a sporcarsi di gloria.

L’Udinese, allora, stava in Serie C. Terza serie, terzo mondo, terzo tempo di una partita che sembrava finita da un pezzo. Gli anni d’oro erano un’eco lontana, sepolta sotto gli almanacchi e la polvere. La gente andava allo stadio per abitudine, più che per speranza. Come si va in chiesa dopo un lutto. Perché era giusto così, perché bisognava farlo, anche se nessuno ci credeva più.

L’Udinese in Serie C sul campo di Casale Monferrato


Poi arrivò lui: Teofilo Sanson. Un nome che sembrava uscito da un romanzo francese, e invece era di Codroipo. Industrialotto friulano con il cuore pieno di calcio e le tasche piene di gelato. Sui camion della sua azienda, Sanson era un marchio che scivolava leggero sull’autostrada del boom economico. Ma Sanson non era tipo da accontentarsi dei numeri. Voleva costruire qualcosa che restasse. Voleva riportare l’Udinese dove sentiva che doveva stare: in alto. Lui, ultimo di dodici fratelli, che era partito da un semplice chiosco di gelati a Torino, e che accompagnò anche Francesco Moser a tanti dei suoi successi e che sostenne altri sport, come il rugby.

Lo fece con metodo, con passione, con un certo stile. Teofilo non era un petroliere alla Berlusconi, né un presidente da passerella. Parlava poco, ma capiva molto. Aveva una visione. E quando nel 1976 prese le redini del club, capì che bisognava partire dalle fondamenta.

Massimo Giacomini portato in trionfo dai suoi giocatori


Chiamò un allenatore friulano, Massimo Giacomini, uno che conosceva le pietre del “Moretti” e i silenzi di quella terra. Uno che sapeva parlare ai giocatori come si parla ai figli: con affetto e durezza. E intorno a lui, insieme ad un altro personaggio destinato a diventare insostituibile, Franco Dal Cin, mise uomini veri, operai del pallone, senza troppi fronzoli. Gente come Basili, Fanesi, Osti, Bencina e Giustinetti.



La Serie C la lasciarono nel 1978, vincendola da dominatori. Lo stadio cominciò a riempirsi di nuovo. I bar di Udine ricominciarono a parlare di fuorigioco e non solo di grandine e raccolti. Qualcosa si era acceso.

Ma il capolavoro fu la Serie B. La stagione 1978-’79 fu quella della semina. L’anno dopo, il raccolto: l’Udinese salì in Serie A, dopo ventidue anni di esilio. La città esplose. Il “Friuli”, impianto moderno nato proprio in quegli anni, divenne una cattedrale in bianco e nero. Fellet fu il giocatore con più presenze, mentre Nerio Ulivieri il bomber. Era l’Udinese anche di Delneri, Leonarduzzi e Vriz.

Una formazione dell’Udinese nella stagione 1977-‘78, prima classificata nel campionato di Serie C, promossa in Serie B e vincitrice della Coppa Anglo-Italiana e della Coppa Italia Semiprofessionisti. In piedi, da sinistra: Fanesi (capitano), Bonora, Leonarduzzi, Pellegrini, Apostoli, Della Corna. Accosciati, da sinistra: Galasso, De Bernardi, Palese, Riva, Gustinetti.


E lì, in tribuna, con gli occhiali spessi e il sorriso appena accennato, c’era sempre lui: Sanson. Non sgomitava per le telecamere, ma c’era. Come un padre che guarda i figli crescere, senza dire troppo, ma con l’orgoglio negli occhi. Progettando di proporre le prime forme di sponsorizzazione, sui pantaloncini dei calciatori e facendo risaltare sul terreno di gioco la scritta Sanson.

Annata 1978-’79, Sanson con il capitano Franco Bonora



La Serie A fu una conquista, ma anche una sfida. Sanson non si tirò indietro. Mise mani al portafoglio e al progetto. Poi a Udine arrivò Franco Causio, il “Barone”, appena uscito dalla Juventus. Un colpo da maestro. E poi, nel 1983, la follia geniale: Zico. Il fuoriclasse brasiliano, uno dei dieci più grandi di tutti i tempi, accettò Udine per motivi che ancora oggi sembrano irreali. Una combinazione di soldi, passione, promesse e mistero.

Ma quella è un’altra storia, un altro capitolo del romanzo. La vera impresa fu quella salita lenta e costante, quella cavalcata da cavalli di ferro e non da purosangue. Dalla C alla A, con i piedi nel fango e gli occhi puntati al sole.

Udinese 1978, sulle figurine “Panini”



Teofilo Sanson lasciò la presidenza nel 1981, passando la mano a Lamberto Mazza, ma il suo nome rimase inciso nella pietra. Morì nel 2014 nella consapevolezza di aver compiuto ciò per cui erano venuti al mondo. La sua Udinese restò. E ogni volta che i bianconeri scendono in campo contro le grandi, ogni volta che resistono, che combattono, che sorprendono, c’è qualcosa del suo spirito che torna a vivere.



Perché Teofilo Sanson non fu solo un presidente. Fu un costruttore di destino. E il destino, a volte, si scrive con un gelato in mano e una squadra nel cuore.

Mario Bocchio

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