La provincia che sfidò l’Europa: quando il calcio svedese si accese con l’Åtvidaberg
Giu 7, 2025

C’erano le nebbie basse della Småland a coprire i tetti rossi di Åtvidaberg. Era un posto come tanti, incastrato tra le foreste infinite e i laghi silenziosi del sud-est svedese. Un luogo dove il tempo pareva scorrere lento, dove le giornate finivano presto e la fabbrica – quella, sì – segnava il ritmo delle vite. Ma ci fu un decennio, e ci fu una squadra, in cui tutto cambiò.

Il nome era lungo e difficile, Åtvidabergs Fotbollförening, ma in campo correva con la leggerezza dei sogni. E nel cuore degli anni Settanta, mentre il calcio europeo parlava olandese e tedesco, tra Cruijff e Beckenbauer, in un angolo remoto della Svezia si scriveva una delle favole più improbabili del pallone moderno.

Veine Wallinder segna il 2-0 sotto gli occhi esterrefatti di Beckenbauer



La città-fabbrica e l’utopia del pallone


All’origine di tutto c’era una fabbrica di calcolatrici: Facit AB. Era il colosso industriale di Åtvidaberg, l’impresa che dava lavoro a quasi tutti e che sapeva guardare oltre l’acciaio e le cifre. A capo di quel sogno manageriale c’era Elof Ericsson, un visionario che credeva nel legame profondo tra sport, comunità e industria. Per lui, il calcio non era solo intrattenimento: era uno strumento di progresso sociale, un ponte tra lavoro e identità collettiva.



E fu così che la squadra locale, fondata nel 1907 e per decenni inchiodata nelle categorie minori, cominciò a salire. Prima lentamente, poi vertiginosamente. Vennero costruite strutture moderne, vennero reclutati tecnici preparati, e soprattutto cominciò una politica che oggi chiameremmo “di scouting scientifico”: in giro per la Svezia, venivano cercati giovani talenti spesso ignorati dalle grandi.

Tra loro c’era un ragazzo alto e biondo di nome Ralf Edström, nato a Degerfors, con una falcata da mezzofondista e il sinistro dolce come l’estate nordica. E c’era Conny Torstensson, centrocampista infaticabile, che sembrava avere due polmoni in più degli altri e una lucidità tattica da veterano. Arrivarono anche Benno Magnusson, funambolo di fascia, e Roland Sandberg, centravanti silenzioso ma letale.

Åtvidabergs FF 1973

Allenati da Sven-Agne Larsson, un tecnico austero ma innovativo, quegli uomini trasformarono il piccolo Kopparvallen in una fucina di ambizioni. Nel 1972 e poi ancora nel 1973, l’Åtvidaberg vinse il campionato svedese. Non fu solo un’impresa sportiva: fu una rivoluzione simbolica. Una cittadina di 7.000 anime piegava le capitali del calcio nordico, Malmö, Göteborg, Stoccolma.

Ma il culmine arrivò nell’autunno del 1973. Il sorteggio di Coppa dei Campioni regalò alla squadra svedese un avversario leggendario: il Bayern Monaco. Campioni di Germania, futuri campioni d’Europa. Una corazzata con dentro i nomi di Sepp Maier, Franz Beckenbauer, Paul Breitner, e soprattutto Gerd Müller, il “Bomber der Nation”.

Roland Sandberg con la maglia della Svezia


All’andata, in Germania, fu battaglia. L’Åtvidaberg andò sotto ma non si spezzò, anche se finì 3-1 per i bavaresi. Al ritorno, in un Kopparvallen ribollente d’entusiasmo e bandiere biancoblù, successe qualcosa di impensabile. Gli svedesi andarono in vantaggio 3-0, trascinati da Torstensson e Sandberg. Per qualche minuto, la provincia sfiorò la leggenda. Solo nel finale, con i muscoli svuotati e l’orgoglio tedesco ferito, il Bayern riuscì a segnare e, dopo i supplementari, a passare il turno grazie ai calci di rigore.

Ma l’Europa, quella sera, aveva scoperto Åtvidaberg. E la Svezia calcistica – che fino a poco prima sembrava solo una parente povera delle grandi nazioni – cominciò a cambiare.

Nella successiva partecipazione alla Coppa dei Campioni l’Åtvidaberg affrontò l’Universitatea Craiova, squadra rumena. Dopo una sconfitta per 2-1 in trasferta, gli svedesi ribaltarono il risultato vincendo 3-1 in casa, qualificandosi. Nel turno successivo, affrontarono l’HJK Helsinki. Con una vittoria per 3-0 in trasferta e un 1-0 in casa, davanti all’intera Svezia sbalordita si aprì l’orizzonte inaspettato dei quarti di finale con l’urna che fece balzare fuori il bussolotto del potente Barcellona. Che si impose in casa per 2-0 e andò a vincere in Svezia 3-0. Nonostante l’eliminazione, il percorso dell’Åtvidaberg rimane una delle imprese più memorabili nella storia del calcio svedese.

Come ogni sogno, anche quello dell’Åtvidaberg ebbe una fine. Facit, la fabbrica madre, non resse al cambiamento tecnologico. Le calcolatrici meccaniche vennero spazzate via dall’elettronica giapponese. L’economia cittadina collassò, e con essa il supporto alla squadra. I giocatori migliori partirono: Torstensson al Bayern, Edström al PSV, Sandberg in Germania.



Negli anni Ottanta, la squadra cadde lentamente nei ranghi. Tornò ad annaspare tra seconda e terza divisione, lasciando spazio ad altri club più ricchi, più moderni, più cittadini.


Ma Åtvidaberg non ha dimenticato. Ancora oggi, all’ingresso del Kopparvallen, c’è un piccolo museo. Un luogo raccolto, dove si conservano le maglie dei campioni, le fotografie in bianco e nero, i ritagli dei giornali tedeschi che raccontavano increduli di quei “contadini” che avevano fatto tremare il Bayern.

Un fotogramma della sfida contro il Bayern a Monaco di Baviera



Ogni tanto, qualche vecchio tifoso racconta ancora di quella sera del ’73 come fosse una battaglia vichinga. E i bambini, mentre tirano calci ai palloni nel vento del nord, portano sulle spalle i cognomi dei padri calcistici che non hanno mai visto ma che tutti, qui, conoscono.

La sida di ritorno risolta ai calci di rigore a favore del Bayern, che alla fine vincerà la sua prima Coppa dei Campioni


Perché il calcio è questo: è storia, è identità, è la possibilità che anche il piccolo – se ben guidato, se amato, se capace di sognare – possa farsi grande.


E in una Svezia grigia di autunni eterni, una volta, per qualche anno, il cielo fu azzurro e bianco. E il suo nome era Åtvidaberg.

Mario Bocchio


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