Il cannoniere gentiluomo: Ștefan Dobay, il Mozart dei Carpazi
Giu 5, 2025

Tra le brume della Transilvania e il fragore di un’Europa in bilico, emerse un uomo che trasformò il calcio in poesia e il pallone in strumento musicale. Ștefan Dobay non fu soltanto un cannoniere implacabile: fu una figura di frontiera, sospesa tra due mondi, tra due culture, tra l’antico e il moderno.

Un primo piano di Dobay mentre scarica il suo potentissimo sinistro



Nato il 26 settembre 1909 a Újszentes (oggi Dumbrăvița), un villaggio allora ungherese e oggi romeno, Ștefan Dobay crebbe in una terra dove il calcio era ancora un gioco di strada, fatto di palloni di pezza e porte disegnate col gesso sui muri delle case. Figlio di una famiglia di origini magiare, Dobay parlava ungherese in casa e romeno nelle piazze. La sua infanzia fu un mosaico di lingue, tradizioni, e identità incrociate: una complessità che avrebbe permeato tutta la sua vita.

Due primi piano del “Cavallo”



Era un ragazzo silenzioso, introverso, ma con un senso precoce dell’eleganza e della misura. Quando cominciò a giocare a calcio con il Banatul, a soli 17 anni, il suo talento era già evidente. Non correva: fluttuava. Non calciava: disegnava traiettorie. I giornali dell’epoca lo definirono presto „fotbalist cu mintea de inginer”, un calciatore con la mente dell’ingegnere. Anche se molti lo soprannominarono calul, il cavallo.

Nel 1930, Dobay passò alla Ripensia Timișoara, la prima squadra romena a essere gestita in modo professionale, ispirata ai modelli dell’Europa centrale. Era un laboratorio di idee, dove si sperimentavano schemi, ritmi di allenamento, diete, persino psicologia dello sport: concetti avveniristici per l’epoca.

Il Ripensia che vinse la Coppa di Romania 1933-’34



Dobay divenne subito il simbolo di quella rivoluzione silenziosa. Ala sinistra naturale, dotato di un sinistro chirurgico, giocava con il numero 11 ma pensava da numero 10. Era uno di quei rari talenti capaci di unire pensiero e gesto. Dal 1932 al 1940 vinse quattro campionati e due Coppe di Romania, segnando in ogni finale, lasciando sempre la firma.

Il Ripensia che sconfisse il Milan 3-0



Fu capocannoniere del campionato in quattro stagioni (1933, 1934, 1935 e 1937), ma mai vanitoso. Non esultava in modo scomposto: sollevava appena un braccio, tornava a centrocampo. “Il gol è un dono che si restituisce con discrezione”, diceva spesso. Era un uomo colto, appassionato di letteratura mitteleuropea e musica classica. Alcuni raccontano che, negli spogliatoi, portasse con sé libri di Thomas Mann e ascoltasse Franz Lehár prima delle partite.
L’apice della sua carriera arrivò con la nazionale romena. Dobay fu convocato per tre edizioni della Coppa del Mondo: 1930, 1934 e 1938. A quei tempi, rappresentare la Romania era anche un atto politico: il calcio era il nuovo teatro delle nazioni, e i gol diventavano simboli di orgoglio e rivalsa.

1934, mentre con la Romania affronta la Cecoslovacchia



Nel Mondiale del 1934, in Italia, segnò contro la Cecoslovacchia, ma la Romania venne eliminata al primo turno. Quattro anni dopo, in Francia, segnò di nuovo, stavolta contro Cuba. Quel match, giocato a Tolosa, fu uno degli ultimi bagliori della sua carriera internazionale. In tutto, Dobay collezionò 41 presenze e 19 reti con la maglia della nazionale, numeri straordinari per l’epoca.

Ma più delle cifre, ciò che colpiva era il modo in cui giocava: sempre con il capo leggermente chino, lo sguardo lucido, la corsa mai affannata. Aveva l’aria di un artista in missione. Non cercava la gloria, cercava la perfezione.

La pubblicazione di un’intervista ad un ormai anziano Dobay



Nel 1940, mentre l’Europa veniva inghiottita dal secondo conflitto mondiale, anche la carriera di Dobay subì una brusca frenata. Passò al Ferar Cluj, e poi al Törekvés, una squadra ungherese. Fu un periodo di incertezze, di frontiere mobili e identità in discussione. Dobay, magiaro e romeno, diventò simbolo di una generazione sospesa tra imperi e ideologie.

Finita la guerra, appese gli scarpini al chiodo e divenne allenatore. Anche dalla Romania. Non fu mai un istrione, non cercava la ribalta, ma ovunque andasse lasciava un’impronta di rigore, eleganza e cultura del gioco.

Il libro uscito nel 1979



Morì nel 1994, in una Romania appena uscita dalla dittatura di Ceaușescu, in un mondo che ormai apparteneva al calcio globalizzato, fatto di sponsor, televisioni e procuratori. Nessun documentario, nessuna biografia ufficiale ne ha ancora celebrato degnamente l’eredità.

Eppure, chi lo ha visto giocare – o chi ha solo ascoltato i racconti dei nonni nelle osterie di Timișoara – lo descrive come una figura mitica: il Mozart del calcio carpatico, il cannoniere gentiluomo, colui che attraversava il campo come un violinista sul filo del pentagramma.

Oggi, nel piccolo cimitero di Dumbrăvița, una lapide porta il suo nome. Qualcuno ogni tanto vi lascia un pallone in miniatura, o una sciarpa del Ripensia. Come a dire: non ti abbiamo dimenticato, Stefan. E quando il vento soffia tra i tigli e il suono dei passi echeggia sul selciato bagnato, pare quasi di sentire ancora quel sinistro perfetto colpire il pallone. Come una carezza. Come un addio.

Perché alcuni uomini passano, altri rimangono. E Ștefan Dobay, con i suoi gol, le sue letture e il suo passo d’artista, rimane. Nella memoria del calcio e nella coscienza di chi ancora crede che, almeno una volta, il calcio sia stato una forma d’arte.

Mario Bocchio









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