Ernesto Pellegrini, il presidente che amava l’Inter più dei suoi trofei
Giu 2, 2025

C’è una certa nobiltà malinconica nei presidenti che non hanno vinto abbastanza. Un’aura di romanticismo incompiuto, di sogni accarezzati ma non posseduti del tutto. Ernesto Pellegrini è stato uno di questi. Un presidente che ha speso tanto – denaro, tempo, energie, cuore – ma ha raccolto meno di quanto meritasse. Eppure, a distanza di anni, il suo nome continua a evocare rispetto, gratitudine e un’idea sempre più rara di cosa significhi appartenere veramente a una squadra di calcio.

Quando nel 1984 prese le redini dell’Inter, Ernesto Pellegrini era già un uomo di successo. Aveva costruito da solo un impero nella ristorazione aziendale, partendo da gavette silenziose e arrivando a servire milioni di pasti ogni anno. Un self-made man, con la concretezza della Brianza e il cuore a pochi passi dalla curva. Non un petroliere né un tycoon, ma un uomo che conosceva l’odore dei vestiti sudati dopo il lavoro e il rumore delle domeniche a San Siro. Era uno di noi, solo che ora stava seduto in tribuna d’onore.

Con un’autentica icona interista, l’avvocato Giuseppe Prisco

Con lui, l’Inter entrò in un’epoca di rinnovamento. Pellegrini non lesinò investimenti: comprò campioni, cambiò allenatori, cercò formule vincenti. Non era un visionario né un rivoluzionario, ma un presidente che sognava in grande senza dimenticare il senso della misura. Il colpo più riuscito fu l’ingaggio di Giovanni Trapattoni, il sergente gentile, e di tre fuoriclasse tedeschi: Lothar Matthäus, Andreas Brehme, Jürgen Klinsmann. Da quella miscela di disciplina, talento e fame nacque la stagione 1988-’89, l’anno dello scudetto dei record.

La vittoria dell’Inter della Coppa UEFA nel 1991

Fu un’Inter poderosa, tedesca nel rigore e italiana nel cuore, che vinse il campionato con 58 punti su 68 disponibili, lasciando le briciole alle rivali. Era la squadra di Aldo Serena, di Nicola Berti, di Walter Zenga, del muro centrale Ferri-Mandorlini. Un gruppo compatto, feroce, affamato. E dietro le quinte, Pellegrini: discreto, elegante, soddisfatto come un padre che guarda il figlio suonare per la prima volta un pezzo perfetto.

Ma il calcio raramente concede repliche felici. Gli anni successivi furono una salita irregolare. Arrivarono nuovi stranieri, come Ruben Sosa e Shalimov, poi Bergkamp e Jonk, ma la squadra sembrava sempre cercare sé stessa. Le notti europee regalavano brividi e illusioni – due Coppe UEFA, nel 1991 e nel 1994 – ma in campionato l’Inter faticava a tenere il passo di Milan e Juventus. Pellegrini vedeva crescere le sue creature e i suoi rimpianti: aveva dato tutto, ma il calcio gli restituiva risultati intermittenti, come se il destino si divertisse a mettere in pausa la felicità.

Con Angelo Moratti, al quale nel 1995 cedette la proprietà dell’Inter

Eppure, nonostante i titoli mancati, Pellegrini non perse mai l’anima. Restò coerente al suo stile: mai una parola fuori posto, mai una polemica plateale, mai un’uscita sopra le righe. Il suo era un interismo composto e viscerale allo stesso tempo. Amava la sua squadra con la tenacia di chi ha lottato per ogni traguardo nella vita. E forse per questo, anche nelle sconfitte, sapeva trasmettere dignità.

I due presidenti: Silvio Berlusconi del Milan (a sinistra) e Ernesto Pellegrini, dell’Inter

Nel 1995, stanco e consapevole dei propri limiti, lasciò la presidenza a Massimo Moratti. Lo fece senza clamore, come chi sa quando è il momento di farsi da parte. Ma l’Inter non uscì mai dal suo cuore. Quando, molti anni dopo, tornò a San Siro da spettatore, ricevette l’applauso di uno stadio intero. Non perché avesse vinto tanto, ma perché era stato autentico. Pellegrini aveva incarnato un’idea di calcio dove il sentimento non è un accessorio, ma il centro di tutto.

Oggi, in un tempo dominato da fondi d’investimento, società off-shore e presidenti invisibili, il ricordo di Ernesto Pellegrini resiste come quello di un uomo vero. Un presidente che ci mise la faccia, il portafoglio, ma soprattutto il cuore. Uno che parlava dell’Inter come si parla di una figlia cresciuta in casa, con orgoglio e con un po’ di apprensione.

Pellegrini non fu il più vincente. Ma fu, forse, il più innamorato. E per chi ama il calcio, questo basta a farne un gigante.

Mario Bocchio

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