
C’è stato un tempo in cui il Paris Saint-Germain era una squadra come tante altre del calcio francese. Fondata nel 1970 da una fusione tra il Paris FC e lo Stade Saint-Germain, il club ha vissuto decenni di storia tutto sommato modesta. Un campionato vinto nel 1986 con Safet Sušić come stella, una Coppa delle Coppe raggiunta nel 1996 e vinta contro il Rapid Vienna, e qualche exploit sporadico con giocatori come Raí, Ginola o George Weah.
La Parigi calcistica, prima del 2011, non era capitale di nulla. Anzi, spesso sembrava una provincia del calcio francese, surclassata per cultura sportiva e tradizione da club come il Marsiglia, il Saint-Étienne o il Lione.

Tutto cambia nell’estate del 2011, quando il fondo qatariota QSI acquista il club e promette di trasformarlo in una potenza globale. Il PSG inizia a spendere come nessuno aveva mai fatto in Francia: arrivano Javier Pastore (il primo acquisto simbolico), poi Zlatan Ibrahimović, Thiago Silva, Cavani, Neymar, Mbappé, fino a Lionel Messi.
Parigi diventa la capitale del marketing calcistico, il Parc des Princes si trasforma in passerella, il club si internazionalizza. Ma proprio in questo cambio di pelle si nasconde il cuore del problema: il PSG vuole essere grande, ma sembra volerlo diventare in laboratorio, non sul campo. Il legame con la propria città si fa più fragile, quello con la gloria europea resta chimera.

Il contrasto con club dalla storia secolare è stridente. Il Real Madrid, ad esempio, ha vinto più Champions League negli ultimi dieci anni di quante semifinali il PSG abbia disputato nella sua intera esistenza. Il Milan, uscito da un lungo purgatorio, conserva un carisma europeo che Parigi fatica a costruirsi, nonostante le stelle.

È la lezione antica del calcio: i soldi aiutano, ma non bastano. Servono cultura, continuità, identità. Tutto ciò che il PSG non ha ancora trovato, oscillando tra rivoluzioni tattiche e scommesse mediatiche. Ogni volta che il club parigino sembra avvicinarsi al bersaglio grosso, qualcosa si rompe: un rigore sbagliato, una rimonta subita, una squadra più compatta che spegne il sogno.
Eppure, qualcosa del passato potrebbe ispirare il futuro. Il PSG di Luis Fernández, a metà anni ’90, senza miliardi ma con una forte identità francese, arrivò regolarmente in fondo alle coppe europee. Era una squadra con meno talenti ma più collettivo, con cuore e idee. Quello spirito, oggi, sembra scomparso dietro ai contratti milionari e alle pretese delle superstar.

Luis Enrique, attuale allenatore, prova a ricostruire un’identità di gioco meno dipendente dalle individualità. La partenza di Mbappé potrebbe paradossalmente finalmente liberare il PSG da quell’ossessione per il singolo salvatore e restituire centralità al concetto di squadra.
Il PSG ha cambiato il volto del calcio francese, ma non ne ha riscritto la storia europea. È il club che ha avuto di più, ma ha vinto meno di quanto la sua potenza suggerisca. Il passato, umile ma autentico, ricorda che la grandezza non si costruisce in una notte, e nemmeno con un bonifico.
Forse, per diventare davvero grande, il PSG dovrà smettere di volerlo sembrare.
Mario Bocchio