Giuseppe Peruchetti, il portiere partigiano: da San Siro alle Langhe, una vita tra i pali e la libertà
Mag 23, 2025

Nel calcio italiano ci sono nomi che evocano numeri, statistiche, trofei. E poi ci sono uomini come Giuseppe Peruchetti, che hanno scritto una storia più profonda e scomoda: quella che passa tra i pali, certo, ma anche nei boschi, nelle prigioni, nelle pagine dimenticate della Resistenza. Portiere di Inter e Juventus, elegante e coraggioso. Ma anche combattente partigiano nelle Langhe, compagno di Beppe Fenoglio, condannato a morte dai fascisti e salvato solo grazie all’intervento della Juventus.

Una vicenda che sembra uscita da un romanzo. E che invece è tutta vera.

Il portiere Giuseppe Peruchetti

Nato a Gardone Val Trompia, nel Bresciano, il 30 ottobre 1907, Peruchetti era uomo del Nord operaio, cresciuto nella fatica e nell’essenzialità. Portiere per istinto, reattivo, intelligente, privo di teatralità. Esordisce in Serie A con il Brescia nel 1928 e in sette stagioni diventa una colonna, riuscendo anche a ottenere due presenze in Nazionale. Per settantanove anni il record di imbattibilità come portiere del Brescia, 750 minuti, è stato il suo. La sua porta infatti, rimase inviolata dal 20 novembre 1932, quando subì due reti dal Novara, sino al 19 febbraio 1933, quando subì una rete nella vittoria per 3-1 contro la Comense. Il suo primato venne annullato nel 2012 da Michele Arcari.

Poi, nel 1936, il salto all’Ambrosiana-Inter, per sostituire Carelo Ceresoli: due scudetti (1938 e 1940), una Coppa Italia (1939), e la stima dei compagni che lo chiamano “la Pantera Nera” per la sua eleganza in volo. Diventa il vice dell’allenatore Italo Zamberletti, ed è anche lui ad avvallare il clamoroso trasferimento di Giuseppe Meazza al Milan. Poi ci ripensa e ritorna a giocare.

Campionato, 2 giugno 1940: Ambrosiana Inter-Bologna 1-0

Nel 1941, ormai trentenne, va alla Juventus, dove vince un’altra Coppa Italia nel 1942. È l’ultima gioia sportiva prima del crollo del mondo.

Nel 1943, dopo l’armistizio, l’Italia viene spezzata. La Juventus, in cerca di sicurezza, si sfolla ad Alba, nel cuore delle Langhe. Una manovra precaria, per tenere insieme una squadra in un Paese in guerra civile. Ma Giuseppe, che non era mai stato un uomo da retrovie, fa una scelta che pochi avrebbero fatto.

In mezzo al caos, si unisce ai partigiani. Non un simpatizzante, ma un combattente vero, al fianco di figure come Beppe Fenoglio, futuro autore de Il partigiano Johnny. Peruchetti, nome di battaglia Beppe, conosce i boschi, sa muoversi in silenzio, e sa proteggere i compagni: non con i guanti stavolta, ma con il coraggio.

Nel novembre del 1944, Peruchetti viene arrestato dai fascisti . È un nome noto, uno sportivo, ma questo non lo protegge: viene torturato, processato e condannato a morte. La sua esecuzione è imminente. Ma qualcosa, o meglio qualcuno, si muove: gli avvocati della Juventus si attivano, sfruttano contatti, pressioni, e riescono miracolosamente a bloccare la condanna.

Peruchetti (in piedi, primo da destra) alla Juventus nella stagione 1942-’43
Il portiere partigiano

Peruchetti non viene fucilato, ma resta imprigionato prima ad Alba, poi alle Nuove di Torino fino alla Liberazione. In quei giorni scrive, riflette, si spegne e si riaccende. Il calcio è lontano, ma la dignità resta intatta.

Dopo la guerra non cerca vendette né riconoscimenti. Torna a Brescia, allena per due stagioni la Reggina, poi scompare dal calcio. Rifiuta la narrazione eroica, come molti ex partigiani. Non racconta. Non scrive. Ma chi lo ha conosciuto lo sa: sotto quel portiere impeccabile c’era un uomo che aveva scelto la parte giusta, rischiando tutto.

Muore il 21 maggio 1995, quasi novantenne. Cade dal balcone mentre dà da mangiare agli uccellini, nella sua casa in silenzio, come un ultimo volo. La stampa lo ricorda distrattamente. Nessuna lapide negli stadi, nessuna tribuna intitolata. Ma forse a lui sarebbe bastato così.

Oggi, il nome di Giuseppe Peruchetti meriterebbe di essere scolpito non solo nella storia del calcio, ma in quella della libertà italiana. Fu campione sul campo e uomo giusto nella tempesta, quando scegliere da che parte stare significava mettere a rischio la pelle.

In un calcio che spesso dimentica, la sua storia è un promemoria di coraggio e dignità.

Mario Bocchio

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