Gigi e George, i gemelli del vento
Mag 21, 2025


Meroni e Best, anime ribelli del pallone. Diversi eppure speculari, profeti inascoltati di un calcio che avrebbe voluto diventare arte, libertà, poesia. E che non ha mai avuto il coraggio di seguirli fino in fondo.

Ci sono giocatori che attraversano il tempo come meteore, altri che lo piegano. Alcuni lasciano il segno nei trofei, altri nei cuori. Gigi Meroni e George Best hanno fatto qualcosa di ancora più raro: hanno lasciato una scia. Non solo nel calcio, ma nello spirito del tempo. Non sono stati solo campioni. Sono stati simboli. E come tutti i simboli, hanno finito per essere fraintesi, celebrati troppo tardi, consumati in una nostalgia che ancora oggi fa male.

Milano, 1966.Gigi Meroni cammina per corso Buenos Aires con un foulard al collo, una camicia floreale e i mocassini bianchi. Cristiana lo segue, poco dietro, con i capelli raccolti e gli occhi inquieti. La gente si gira, lo riconosce. C’è chi lo adora, chi lo deride. Il calcio italiano non sa cosa fare di uno così: troppo fragile per essere un duro, troppo geniale per essere ignorato. Gigi non se ne cura. Accarezza la giacca a coste marroni, si ferma davanti a una vetrina di una galleria d’arte. Il Torino giocherà domenica, ma lui pensa ancora al quadro che ha lasciato incompiuto nel suo appartamento di via Accademia Albertina.

Gigi Meroni in azione con il Torino

Belfast, 1966. George Best entra in un night club con un sorriso che taglia l’aria. Ha appena segnato due gol in Coppa dei Campioni. È il più giovane, il più bello, il più corteggiato. Ma è anche il più solo. Al bancone ordina un gin tonic. Il barman lo chiama “The Beatle”. Lui ride. Poi si volta verso il jukebox: c’è “Nowhere Man” dei veri Beatles. La trova ironica. “Doesn’t have a point of view, knows not where he’s going to…”
Già. Dove sta andando George Best?

Due ali, un vento solo. Gigi e George non si sono mai incontrati. Eppure sembrano scritti dalla stessa mano, scolpiti nello stesso spirito. Entrambi ali. Entrambi leggeri, sguscianti, irriverenti. Gigi con il suo passo felpato e le carezze al pallone. George con i dribbling secchi, fulminanti, ubriacanti. Entrambi figli di un tempo che cominciava ad assomigliare a una rivoluzione.

1971 Inghilterra-Irlanda del Nord: George Best contro Gordon Banks

La metà degli anni Sessanta fu un terremoto culturale: Beatles, minigonne, movimenti studenteschi. Il calcio, specchio fedele ma in ritardo della società, tentava di capire cosa stava succedendo. E in quel momento storico, apparvero loro: due corpi estranei, due ragazzi che il pallone lo trattavano come un’estensione del sé, e non come uno strumento di lavoro.

Meroni, in Italia, fu un corpo scandaloso. Non solo per il look, ma per la vita. Conviveva con una donna separata, in un’Italia in cui il divorzio era ancora vietato. Amava dipingere, scriveva poesie, odiava gli allenamenti punitivi. Fu chiamato “il George Best italiano”, ma la verità è che fu Best a diventare, a modo suo, l’erede inglese di Meroni.

Best, nel Regno Unito, fu l’idolo del popolo e la disperazione dei manager. Beveva troppo, viveva troppo, brillava troppo. Diceva: “Ho speso molti soldi per donne, alcol e automobili. Il resto l’ho sperperato”. Ma era anche l’unico che poteva decidere una partita da solo. Quando lo faceva, sembrava che la gravità si ritirasse in silenzio per osservarlo.

Destino e condanna. Il mondo del calcio li amava e li temeva. Perché rappresentavano la possibilità di un calcio diverso, più vicino alla libertà che alla disciplina, più alla creazione che all’esecuzione. E quel mondo, in fondo, non era pronto.

Gigi Meroni esce dal campo dopo Torino-Sampdoria, la sua ultima partita

Gigi Meroni morì il 15 ottobre 1967. Aveva 24 anni. Fu investito da un’auto a Torino mentre attraversava la strada con l’amico Poletti. Al volante, ironia della sorte, c’era un ragazzo tifosissimo del Toro. La città si fermò. Si fermò anche il tempo: da quel giorno, il calcio italiano smise di sognare ad occhi aperti.

George Best visse più a lungo. Ma fu una sopravvivenza, più che una vita. I gol diminuirono, gli eccessi aumentarono. I club lo scaricarono, gli amici lo cercarono invano. Morì nel 2005, a 59 anni, con un fegato nuovo e una vecchia malinconia negli occhi. “Non morite come me”, disse. Ma nessuno ha mai vissuto come lui.

Best nel Manchester United, in azione contro il Northampton

Epilogo: due fantasmi gentili. Oggi, in uno stadio moderno fatto di dati, pressing e algoritmi, Gigi Meroni e George Best appaiono come due fantasmi gentili, che danzano tra le righe del ricordo. Non vinsero quanto avrebbero potuto. Non fecero carriera. Ma fecero qualcosa di più raro: ci mostrarono che anche nel calcio, per un attimo, si poteva essere liberi.

E questo, forse, è il loro gol più bello.

Mario Bocchio

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