
Nel cuore della Selva Lacandona, tra machete che fendono l’umidità e passi silenziosi sui sentieri di fango, si alzava il fumo dolce del tabacco. Dietro una maschera di passamontagna, il Subcomandante Marcos scriveva lettere, poesie, comunicati. Ma tra un pensiero sulla lotta degli indigeni e una citazione di Durito lo scarabeo filosofo, ogni tanto, si concedeva un sogno che non parlava di rivoluzione: parlava di calcio. Parlava dell’Inter.
Ufficialmente, Marcos non ha mai dichiarato per iscritto di essere un tifoso dell’Inter. Eppure, le voci corrono come sentieri nella giungla. C’è chi giura di aver letto un frammento di un comunicato – mai più ritrovato – in cui il Sub elogiava Javier Zanetti, “el Pupi”, argentino e capitano nerazzurro, come esempio di disciplina e umiltà. C’è chi, tra i simpatizzanti del movimento zapatista in Italia, racconta di aver inviato una maglia dell’Inter tra i viveri spediti in Chiapas nei tardi anni Novanta. Si dice che la indossasse sotto la divisa mimetica, nei giorni di tregua.

In realtà tutto era nato da Moratti ha inviato degli aiuti in Chapas per costruire un acquedotto, ma anche magliette e palloni. Il leader dei rivoluzionari decise allora di ringraziarlo tramite lettera: “Le scrivo per invitarla formalmente ad una partita tra la sua squadra e la selezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, nel luogo, data e ora che definiremo. Visto il grande affetto che nutriamo per voi, siamo disposti a non sconfiggervi con una goleada e darvi un dispiacere, ma a battervi con un solo gol in modo che i suoi nobili tifosi non vi abbandonino”.

Il ribelle propose Javier Aguirre e Jorge Valdano come guardalinee, e Maradona come arbitro. La partita non si giocò mai. Ma al di là della prova materiale, resta il simbolo. Perché, se c’è una squadra europea che possa riflettersi nei valori zapatisti, è l’Internazionale di Milano. Una squadra nata dall’idea di accoglienza, di resistenza, di identità plurale. Una squadra che non teme di perdere, purché lo faccia rimanendo fedele alla propria storia. Esattamente come il Subcomandante, che scelse di perdere il potere per vincere nella memoria.

Nel 2004, in un’intervista apocrifa pubblicata su un blog anarchico di Barcellona, si leggeva: “L’unica squadra italiana che potrei amare è l’Inter. Perché porta nel nome l’idea di un mondo oltre i confini”. Il testo venne subito screditato, ma i tifosi nerazzurri romantici lo custodiscono come una reliquia apocrifa, come una parabola evangelica extra-canonica. In fondo, cosa importa se non era vero? Il calcio è anche mito, e Marcos è uno che i miti sa scriverli.

In una delle sue lettere a Don Durito della Lacandona, Marcos parlava del sogno come resistenza. E cos’è il tifare Inter se non resistere? Resistere agli anni bui, ai presidenti disillusi, agli arbitraggi ambigui. Resistere aspettando il momento in cui tutto tornerà a combaciare, e il popolo nerazzurro potrà di nuovo scendere in piazza con bandiere, fumogeni e lacrime. Come una rivoluzione calcistica.

Se Marcos è il comandante simbolico di una ribellione etica, Javier Zanetti lo è stato per l’Inter. Due uomini silenziosi, capaci di parlare con gesti misurati. Entrambi figli dell’America Latina, entrambi guidati da un senso profondo di giustizia. In una famosa vignetta su un fanzine milanese del 2006, si vedeva Marcos consegnare a Zanetti una bandiera zapatista, dicendogli: “A te, che combatti senza armi”.
L’accostamento era forzato? Forse. Ma funzionava. Perché in fondo, tifare Inter è anche questo: credere nell’impossibile, vedere legami dove gli altri vedono solo distanze.

Cosa hanno in comune la nebbia di San Siro e la nebbia della foresta del Chiapas? Apparentemente nulla. Eppure, entrambe nascondono qualcosa. Nella prima si cela l’urlo trattenuto di un popolo calcistico eternamente sull’orlo del trionfo o del tracollo. Nella seconda si cela un esercito di uomini e donne che hanno scelto di non arrendersi. Entrambe le nebbie sono rifugi, silenzi carichi di senso.
E allora sì, immaginiamolo pure il Subcomandante Marcos, seduto in un villaggio zapatista davanti a una vecchia radio a onde corte, mentre ascolta Radio Italia che annuncia: “Goal dell’Inter! Zanetti al 92esimo!” Immaginiamolo alzare il pugno chiuso, non per lottare, ma per esultare.
Nel 2010, anno del Triplete, si racconta che una piccola delegazione di attivisti italiani partì per il Chiapas con uno zaino carico di medicinali, libri… e una maglia dell’Inter con il numero 4. Quella maglia – si dice – oggi riposa piegata in una casa comunitaria zapatista, tra un ritratto del Che e una copia di Don Chisciotte. Nessuno l’ha mai vista, nessuno l’ha mai fotografata. Ma ogni tanto, quando la notte si stende sulla giungla e le lucciole ballano tra le foglie, si ha come l’impressione che una striscia nerazzurra brilli nel buio.
Perché in fondo, la lotta – come il calcio – è una questione di fede. E il Subcomandante Marcos, forse, non ha mai smesso di tifare Inter.
Mario Bocchio