Oliviero Garlini, il centravanti d’altri tempi che fece sognare Cesena, Lazio e Atalanta
Mag 10, 2025

La notizia è arrivata silenziosa, come una carezza triste nel primo mattino di maggio: Oliviero Garlini se n’è andato. Aveva 68 anni. Lottava da tempo contro una malattia che l’aveva allontanato dai riflettori, dai campi, dalla gente. Ma non dal cuore di chi il calcio l’ha vissuto, e di chi, soprattutto, se lo ricorda com’era: polveroso, ruvido, fatto di sogni e di provincia.

Oliviero era nato a Stezzano, nella bergamasca, nel 1957, quando l’Italia si rimetteva in piedi e le biciclette cominciavano a cedere il passo alle Fiat 600. Era un calcio di fango e palloni pesanti, dove prima di toccare il pallone dovevi guadagnarti il rispetto del campo. Garlini ha cominciato dai gradini bassi, quelli veri: un’apparizione nel Como, poi l’Empoli, la Nocerina, il Fano. Squadre di trincea, dove si correva più del sole e si segnava solo se avevi il cuore oltre le gambe.

Garlini nel Cesena

Poi è arrivato il Cesena, e da lì l’ingresso nel grande calcio. Ma non fu una discesa, semmai un’arrampicata, come quelle che conosceva bene lui, bergamasco d’anima. È infatti al Cesena che esplode: stagione 1980-’81, promozione in Serie A. In Romagna lo ricordano ancora, e non solo per le reti: era uno di quelli che ti guardava negli occhi quando parlava. Un attaccante d’altri tempi, direbbero oggi. Uno che ti si portava via il difensore e pure la malinconia.

Con la maglia della Lazio nella stagione 1984-’85

Il passaggio alla Lazio è stato il suo primo vero palcoscenico nazionale. Roma, l’Olimpico, la maglia biancoceleste sulle spalle. Stagione 1985-’86: 18 gol in Serie B, capocannoniere. Una salvezza conquistata tra mille difficoltà, sotto la guida dell’indimenticato Gigi Simoni. In campo, Garlini era una sentenza. Fuori, un uomo mite, quasi timido. Parlava poco, segnava tanto. Come certi poeti che dicono tutto con una sola riga.

Nel 1986 arriva la chiamata dell’Inter. Il sogno. Milano, San Siro, le grandi sfide. Ma c’era Altobelli, c’era Rummenigge. E Garlini, abituato a prendersi lo spazio lottando, questa volta dovette sedersi spesso in panchina. “Non mi sono mai sentito una riserva – disse una volta – ma uno che dà una mano, quando serve”. Era il suo stile. Onesto, concreto, senza rancori. Lascia l’Inter dopo una stagione per tornare dove lo aspettavano: a casa.

Acrobazia nell’Inter

Casa, per lui, diventò l’Atalanta. Il ritorno alle radici, al tifo viscerale, alla passione orobica. Stagione 1987-’88: 17 gol in campionato, promozione in Serie A. Ma non è tutto: in quella stessa stagione, l’Atalanta arriva fino alla semifinale di Coppa delle Coppe, con Garlini decisivo nel cammino europeo. Un’impresa che ancora oggi viene raccontata nei bar di Bergamo, tra un caffè e una stretta di mano.

Sempre in nerazzurro, ma atalantino

Dopo, ci furono gli ultimi anni: Ancona, Ascoli, Ravenna, Corbetta. Il giro finale del campo, prima di appendere le scarpe al chiodo. Ma il calcio, lui, non lo ha mai lasciato davvero. Lo si vedeva ancora nei campi dilettantistici, tra i giovani. Insegnava calcio, ma soprattutto insegnava come si sta al mondo. Senza clamore, senza pretese. Con dignità.

Contrastato da Pasquale Bruno in Ascoli-Juventus

Oliviero Garlini è morto l’8 maggio 2025 nella struttura della Fondazione Caccia di Gandino. La sua scomparsa ha commosso chiunque lo abbia conosciuto, anche solo per una domenica allo stadio. L’Atalanta, la Lazio, il Cesena: tutte le sue ex squadre hanno espresso cordoglio, ricordando il suo stile, la sua generosità, la sua umanità.

In totale, Garlini ha disputato 118 partite in Serie A, segnando 18 gol, e 189 in Serie B, con 55 reti. Ma i numeri, nel suo caso, dicono poco. Perché Oliviero Garlini era molto di più. Era uno di quei calciatori che non si misurano con le statistiche, ma con i ricordi.

E oggi, in tanti, lo ricordano così: in corsa verso la porta, il numero nove sulle spalle, il vento negli occhi. Come se il tempo, almeno per un attimo, non fosse mai passato.

Mario Bocchio

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