Il capitano ribelle della Real Sociedad e l’uomo che alzò la bandiera del popolo basco
Mag 7, 2025

Nel cuore verde dei Paesi Baschi, tra le montagne che abbracciano la cittadina industriale di Mondragón, nacque nel 1950 un uomo destinato a diventare molto più di un semplice calciatore. Ignacio Kortabarría Abarrategi – per tutti, Inaxio – non fu solo il capitano della Real Sociedad nei suoi anni d’oro, ma anche una voce coraggiosa, ribelle, che nel momento più buio della dittatura franchista osò sfidare un intero regime con un gesto tanto semplice quanto potente: alzare al cielo l’Ikurriña, la bandiera del suo popolo.

Kortabarría si libera di testa accanto ad Arzak (10) e davanti al giocatore del Barcellona Marcial (9). “Camp Nou”, 1973

Difensore centrale di straordinaria solidità, Kortabarría iniziò la sua carriera nel settore giovanile del San Sebastián, la squadra B della Real Sociedad. Dall’esordio in prima squadra nel 1971 fino al ritiro nel 1985, non lasciò mai il club di San Sebastián. Fu un’unione indissolubile, quasi sacra. Giocò 442 partite ufficiali, segnò 22 gol e fu capitano per lunghi anni, conducendo la squadra a due storici titoli della Liga (1980-‘81 e 1981-‘82), i primi della storia del club.

Ma non era solo la sua abilità difensiva a impressionare: era la compostezza, la leadership, la capacità di guidare i compagni con lo sguardo prima ancora che con le parole. In campo, era un baluardo; fuori, un uomo di principi.

Arconada e Kortabarría, Real Sociedad, 1979

La storia cambiò il 5 dicembre 1976. Quella domenica, la Real Sociedad affrontava l’Athletic Club nel sentitissimo derby basco. La dittatura franchista era caduta da poco più di un anno, ma molte sue ombre erano ancora ben visibili. Tra queste, l’illegalità dell’Ikurriña, la bandiera del popolo basco, che per decenni era stata repressa, vietata, nascosta.

Quel giorno, prima del fischio d’inizio, i capitani delle due squadre – Inaxio Kortabarría e José Ángel Iribar – entrarono in campo mano nella mano, stringendo tra le mani l’Ikurriña. Fu un gesto non annunciato, ma pianificato con attenzione e coraggio. Lo stadio, per un attimo, ammutolì. Poi esplose in un boato che travalicò i confini dello sport. Quel gesto, che oggi potrebbe sembrare semplice, fu un atto di disobbedienza civile, una sfida diretta all’autorità statale.

Górriz e Kortabarría, 1982

In quel momento, Kortabarría non era solo un calciatore: era diventato simbolo di un’identità collettiva, il volto visibile di un popolo che rivendicava la propria storia, la propria lingua, la propria bandiera.

La Spagna aveva bisogno di difensori solidi, e Kortabarría era uno dei migliori del paese. Fu convocato più volte dalla nazionale, ma rifiutò. Non per mancanza di orgoglio sportivo, ma per una scelta politica, etica, personale. Preferì rinunciare a un sogno che ogni calciatore coltiva – indossare la maglia della selezione nazionale – pur di rimanere fedele alla causa basca.

Invece, indossò con orgoglio la maglia della selezione non ufficiale dei Paesi Baschi in due occasioni. Per lui, quella era la vera nazionale. La coerenza di quest’uomo era tanto forte quanto la sua marcatura a uomo: non faceva sconti, né ai centravanti avversari né alla propria coscienza.

La Real Sociedad nella stagione 1975-’76

Dopo il ritiro nel 1985, Inaxio non cercò riflettori. Rimase, come sempre, legato alla sua terra, alla sua gente. Non inseguì carriere televisive o incarichi federali. Continuò a essere ciò che era sempre stato: un simbolo silenzioso, forte, immutabile. Oggi, il suo nome è sussurrato con rispetto negli stadi baschi, soprattutto tra i più giovani, che forse non hanno vissuto quegli anni ma ne conoscono i protagonisti.

Ignacio Kortabarría nel 1981

A San Sebastián, il suo volto compare su murales e libri di storia, ma soprattutto nei racconti degli anziani che hanno assistito a quel famoso derby del 1976. “Era il nostro capitano, ma anche qualcosa di più”, dicono. “Era uno di noi”.

La vita e la carriera di Ignacio Kortabarría sono la prova che il calcio, quando vissuto con autenticità, può trascendere lo sport. Può diventare cultura, identità, resistenza. La sua storia non è solo quella di un grande difensore o di un capitano vincente, ma quella di un uomo che seppe usare il palcoscenico del calcio per dare voce a chi, per troppo tempo, era stato costretto al silenzio.

Mario Bocchio

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