
Nella lunga e prestigiosa storia della Juventus, ci sono episodi che sfuggono alla memoria collettiva, nascosti tra le pieghe del tempo. Uno di questi riguarda l’estate del 1957, quando sulla panchina bianconera si sedette un uomo dal nome esotico e dal curriculum imprevedibile: Ljubiša Broćić. Un personaggio che pare uscito da un romanzo di viaggio, più che da un almanacco sportivo. Non era un ex calciatore famoso né un prodotto dei salotti del calcio occidentale. Era, piuttosto, un cittadino del mondo in un’epoca in cui il mondo del pallone parlava ancora dialetto locale.
Chi era Broćić? Per alcuni, un misterioso stratega dell’Est. Per altri, un allenatore irrequieto, sempre in viaggio, sempre in bilico tra rivoluzione e fuga.



Ljubiša Broćić
Era noto negli ambienti calcistici per il suo approccio scientifico al gioco: parlava di “movimenti sincronizzati”, di “spazi dinamici”, in tempi in cui ancora si marcava a uomo e si badava prima a distruggere che a costruire.
All’epoca, la Juventus cercava una nuova identità dopo una stagione deludente. Gli Agnelli, mai banali nelle scelte, decisero di affidare la squadra a questo tecnico serbo già noto in ambito internazionale, ma non certo un volto familiare del calcio italiano.

Broćić arrivava da una serie di esperienze in giro per il mondo: aveva guidato la nazionale dell’Egitto, quella dell’Albania, il Partizan Belgrado e la selezione giovanile jugoslava, poi la Stella Rossa e anche il PSV Eindhoven. Ma anche il Vojvodina e in Libano. Ovunque era passato, aveva lasciato una traccia: uno stile pragmatico, moderno per l’epoca, e una certa insofferenza verso le pressioni delle dirigenze troppo invadenti.
A Torino, però, il suo stile non prese mai davvero piede, nonostante la vittoria del decismo Scudetto. L’ambiente juventino – abituato a metodi più tradizionali – si trovò spiazzato dai modi di questo tecnico che parlava cinque lingue e citava Shakespeare, ma che faticava a farsi capire dai giocatori. La sua Juventus giocò bene a tratti, ma non bastò. Fu un esperimento breve, durato appena due stagione (1957-‘59), con il secondo campionato chiuso al quarto posto dietro Milan, Fiorentina e Inter e caratterizzato dall’esonero, con Teobaldo Depetrini al suo posto.

Tra le idee del mister slavo e le abitudini consolidate dello spogliatoio italiano, lo scontro fu costante.
Broćić cercava ordine, disciplina tattica e movimenti corali. I giocatori, abituati a un calcio più istintivo, non sempre lo seguivano. Lui pretendeva che anche i più dotati si sacrificassero, che Boniperti rientrasse, che Charles facesse pressing, che Sivori passasse il pallone prima del dribbling. Ma il genio non si addomestica facilmente.


Alla guida del Barcellona
Ma ciò che pesò di più fu il rapporto mai sbocciato con l’ambiente. Broćić era un tecnico “straniero” nel senso pieno del termine: nei metodi, nel linguaggio, nel carattere. Fu congedato. Nessun rancore, solo la sensazione di un esperimento fallito. Ma lui, come sempre, non si fermò.
Con lo stesso bagaglio di idee e valigie sempre pronte, proseguì il suo pellegrinaggio calcistico: Kuwait, Nuova Zelanda, Australia, Arabia Saudita e Bahrein, ma anche una parentesi a Tenerife. E poi, nel 1960, la chiamata più sorprendente: il Barcellona. Nella stagione 1960-‘61, con Broćić in panchina per una parte dell’annata, i catalani riuscirono nell’impresa di eliminare il Real Madrid dalla Coppa dei Campioni, la prima volta che accadeva nella storia della competizione. Un piccolo miracolo, firmato da un uomo che in pochi, oggi, ricordano.

Broćić non era un vincente nel senso classico del termine. Ma era un precursore, un tecnico globale in un’epoca in cui gli allenatori raramente si spostavano oltre i confini nazionali. È stato, in qualche modo, un antesignano di quel calcio globalizzato che oggi diamo per scontato.
Eppure, a Torino, il suo nome rimane una nota a piè di pagina, un esperimento dimenticato. Un allenatore che passò come una cometa: luminosa, fugace, destinata ad altri cieli.

Ovunque ha portato con sé lo stesso bagaglio: un taccuino pieno di schemi, una filosofia tattica che anticipava i tempi, e una solitudine malinconica da ex naufrago del calcio balcanico, mai davvero a casa da nessuna parte.

In Jugoslavia non era più ben visto: ai tempi, le sue idee erano considerate troppo “occidentali”. In Italia era stato troppo straniero per essere capito. In Spagna, troppo fugace per lasciare radici. Eppure, ovunque andasse, lasciava un segno, una curiosità, una domanda.
Morì in Australia nel 1995, lontano dai riflettori, con poche righe sui giornali. Ma oggi, nell’epoca in cui gli allenatori cambiano continente come si cambia treno, il nome di Ljubiša Broćić merita una riscoperta. Fu un precursore. Un giramondo. Un idealista in tuta da allenatore.
Mario Bocchio