Il Campionato Makana: il calcio come resistenza a Robben Island
Apr 8, 2025

Robben Island, Sudafrica. Tra le mura fredde e oppressive della prigione di Robben Island, dove il regime dell’apartheid confinava i suoi oppositori più temuti, nacque una straordinaria storia di resistenza e speranza: il Campionato Makana. In un luogo dove la libertà sembrava un concetto distante e irraggiungibile, un gruppo di uomini trovò nel calcio una via di fuga, un’ancora di normalità in un mondo che li voleva annientati.

Il regime dell’apartheid imponeva che ogni aspetto della vita quotidiana fosse regolato dalle pratiche di segregazione: dal matrimonio alle abitazioni, dalla scuola al lavoro fino ai gesti più semplici come prendere un autobus o un taxi

Robben Island, un’isola-prigione al largo di Città del Capo, divenne un simbolo dell’oppressione del regime sudafricano. Qui venivano rinchiusi coloro che osavano sfidare l’apartheid, tra cui membri dell’African National Congress (ANC), attivisti, intellettuali e oppositori politici. Le giornate erano scandite da lavori forzati, celle minuscole e la costante umiliazione imposta dalle guardie carcerarie.

Veduta aerea di Robben Island e sullo sfondo Città del Capo e Table Mountain. La parte sinistra dell’isola ospitò il complesso penitenziario dove vennero confinati gli attivisti della lotta anti-apartheid e dove Nelson Mandela scontò in isolamento 18 dei suoi 27 anni di prigionia

Eppure, tra le privazioni e la disperazione, nacque un’idea rivoluzionaria: organizzare un campionato di calcio. Non era solo un passatempo, ma un atto di resistenza, un modo per affermare la propria dignità e mantenere viva la speranza. Così, negli anni ’60 e ’70, venne fondata la Makana Football Association (MFA), un’organizzazione creata dai detenuti per regolamentare il gioco, redigere calendari, stabilire arbitri e persino scrivere referti ufficiali delle partite. Il nome, “Makana”, fu scelto in onore di un capo Xhosa che aveva combattuto contro il dominio coloniale ed era stato imprigionato proprio su Robben Island nel XIX secolo.

Lizo Sitoto a Robben Island nel 2006. Giocatore di rugby da uomo libero, condannato nel 1965 a scontare 16 anni e mezzo di prigione sull’isola, diventò uno dei migliori portieri della Mfa

Le partite si disputavano ogni sabato su un campo polveroso e improvvisato, delimitato da linee tracciate con pietre e sabbia. Le squadre rappresentavano diverse sezioni della prigione, e ogni incontro era vissuto con un’intensità che andava ben oltre il semplice gioco: era un momento di evasione, un frammento di normalità in un ambiente disumanizzante.

Lo stemma dei Rangers, uno dei club fondatori della Makana Football Association che fu capitanato anche da Jacob Zuma, che è poi divenmtato presidente del Sudafrica

Gli incontri non erano facili. Le divise erano improvvisate, fatte di vecchi stracci o pezzi di stoffa cuciti insieme. I palloni spesso erano malridotti, ma nulla fermava i prigionieri dal giocare. Le guardie, inizialmente diffidenti, finirono per tollerare il torneo, senza però comprenderne il reale significato: il calcio non era solo intrattenimento, ma un atto di autodeterminazione.

Tra gli spettatori c’era anche un uomo destinato a cambiare la storia: Nelson Mandela. Sebbene non potesse partecipare direttamente al campionato, osservava le partite con attenzione, riconoscendo in esse qualcosa di più grande. Sapeva che lo sport, con le sue regole, la sua disciplina e la sua capacità di unire le persone, sarebbe stato un elemento chiave per la costruzione di un futuro democratico per il Sudafrica.

Preziosi documenti sui campionati calcistici a Robben Island

Il Campionato Makana insegnò ai prigionieri molto più delle regole del calcio. Insegnò loro la gestione delle risorse, l’importanza della leadership e della coesione di gruppo. Ogni squadra aveva un capitano, una gerarchia ben definita, e il rispetto delle regole era fondamentale. Questo spirito organizzativo sarebbe stato cruciale anni dopo, quando molti di quei detenuti sarebbero usciti dalla prigione per guidare il Sudafrica verso la democrazia.

“Senza arbitri niente calcio” era il motto della Referees Union, l’Associazione degli arbitri della Makana. Prima di essere ammessi all’arbitraggio di una partita, gli aspiranti direttori di gara dovevano però affrontare un esame scritto come previsto dalla Fifa

Le partite diventavano momenti di celebrazione, di libertà temporanea, ma anche di strategia. I prigionieri discutevano di tattiche, di formazioni e di schemi di gioco con la stessa passione con cui, fuori dalla prigione, avevano discusso di politica e resistenza. Il calcio era diventato il loro linguaggio comune, un collante che li teneva uniti nella lotta contro l’oppressione.

Anthony Suze nel 2006 appoggiato al filo spinato che circonda la prigione. Calciatore appassionato sin da piccolo, sull’isola fu uno dei protagonisti della campagna per ottenere il permesso di poter giocare a calcio e uno dei capocannonieri dei campionati della Makana

Quando finalmente l’apartheid crollò e i prigionieri vennero rilasciati, la Makana Football Association ricevette un riconoscimento ufficiale dalla FIFA, un tributo alla straordinaria storia di questi uomini che, con un pallone e un campo di fortuna, avevano dimostrato che la dignità umana non può essere soppressa.

Oggi, il Campionato Makana è ricordato non solo come una pagina straordinaria della storia del calcio, ma come un simbolo di resistenza e speranza. Robben Island, da luogo di sofferenza, è diventata un sito patrimonio dell’umanità, un monito contro le ingiustizie del passato. E tra le sue mura, ancora riecheggiano i passi e le voci di quegli uomini che, con il calcio, scrissero una delle pagine più incredibili della storia della lotta per la libertà.

Mario Bocchio

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