
Dove l’Alessandrino degrada verso il Monferrato, tra le colline baciate dal sole e le terre laboriose del Piemonte, nacque nel 1899 Clemente Morando, destinato a diventare uno dei portieri più ammirati del calcio italiano nei primi decenni del Novecento. La sua storia, segnata da sacrifici, talento e un inossidabile spirito di dedizione, si dipana tra il piccolo club della Valenzana e l’onore di vestire la maglia della Nazionale italiana.
Cresciuto in una famiglia modesta, Clemente scoprì il calcio come molti altri ragazzi della sua generazione rincorrendo un pallone di cuoio per le strade polverose del suo paese natale, Pecetto di Valenza. Ma il destino aveva riservato per lui una carriera che sarebbe andata ben oltre quei campetti di periferia.

7 settembre 1919
La Valenzana, la squadra della sua città, gli diede la prima opportunità di dimostrare il suo valore tra i pali. Alto, agile e dotato di un’innata capacità di leggere il gioco, Morando si distinse ben presto per i suoi interventi prodigiosi, parate che sembravano sfidare le leggi della fisica e che fecero di lui un idolo locale. Tuttavia, la guerra bussò alla sua porta prima ancora che potesse consacrarsi nel calcio professionistico.
Come tanti giovani della sua generazione, Morando fu chiamato alle armi durante la Prima Guerra Mondiale. La guerra, con il suo carico di orrori e sacrifici, temprò il suo carattere, insegnandogli la disciplina e la resilienza, qualità che avrebbero caratterizzato il suo stile di gioco negli anni successivi.


Morando nel match contro la Svizzera (a sinistra) e con la maglia della nazionale a Villa Scassi
Tornato alla vita civile, riprese il suo posto tra i pali della Valenzana, determinato a recuperare il tempo perduto. Fu sotto la guida di Carlo Carcano, uno dei grandi allenatori pionieri del calcio italiano, che Morando affinò le sue doti e si impose come uno dei portieri più promettenti del panorama nazionale.
Il talento di Morando non passò inosservato, e nel 1925 arrivò la chiamata dell’Alessandria, una delle squadre più ambiziose del tempo. Qui trovò un ambiente competitivo, con compagni di squadra che lo spronavano a migliorarsi giorno dopo giorno.
Fu proprio con l’Alessandria che raggiunse il culmine della sua carriera, contribuendo alla vittoria della Coppa CONI nel 1927, un trofeo prestigioso che cementò la sua reputazione di portiere affidabile e spettacolare. Le sue parate, spesso decisive, divennero leggendarie tra i tifosi, che lo consideravano una muraglia umana.
Proprio ai tempi della Valenzana, il commissario tecnico della Nazionale non poté ignorare le sue straordinarie prestazioni e lo convocò per difendere la porta dell’Italia. Il 6 novembre 1921, Morando fece il suo debutto con la maglia azzurra in un match contro la Svizzera, terminato 1-1. La sua prestazione fu accolta con entusiasmo: “sicurissimo, magnifico per il colpo d’occhio, la presa ferrea, l’agilità e l’intuizione”, scrissero i giornali dell’epoca.
Giocò altre due partite da titolare in Nazionale, contro l’Austria e la Cecoslovacchia, dimostrando sempre grande sicurezza tra i pali e guadagnandosi il rispetto della stampa sportiva e dei tifosi.

Tuttavia, la sorte si rivelò crudele con Morando. Il 17 marzo 1929, durante un acceso incontro tra Alessandria e Roma, subì un grave infortunio all’addome dopo un duro scontro con Rodolfo Volk, attaccante giallorosso. L’episodio fu drammatico: l’arbitro assegnò un rigore alla Roma, scatenando il caos sugli spalti e la sospensione del match. L’Alessandria perse la partita a tavolino, ma la vera sconfitta fu quella di Morando, che, operato d’urgenza, non riuscì mai più a tornare al livello di prima.

Dopo l’infortunio, provò a reinventarsi. Prima come allenatore-giocatore del Messina, poi come arbitro, esperienza che però abbandonò nel 1934. Nonostante il ritiro dal calcio professionistico, rimase legato al mondo del pallone, collaborando con squadre locali come la Valenzana e la Fulvius 1908, contribuendo alla crescita di nuove generazioni di calciatori.
Morando si spense nel 1972, all’età di 73 anni. La sua eredità vive ancora nelle cronache sportive di un calcio d’altri tempi, quando i portieri erano cavalieri solitari, ultimi baluardi di difese imperforabili. Il suo nome, inciso nella storia del calcio italiano, rimane sinonimo di coraggio, talento e passione per lo sport.
Mario Bocchio