Ci sono i portieri e, poi, ci sono le icone. Franco Tancredi appartiene alla seconda categoria. Non solo un portiere, ma anche e soprattutto un’icona. Uno di quei romanisti che non esprime la propria passione soltanto quando porta i guanti, ma in particolare quando se li toglie. Nel momento in cui le sue mani servono soltanto per accarezzare due colori – il giallo e il rosso – che gli hanno cambiato la vita.
Tancredi ai tempi del Milan
Pensare che lui, inizialmente, neppure era portiere. Divenne estremo difensore ai tempi del Giulianova, quando giocava ancora da ala destra, e mister Tribuiani gli chiese di sostituire un portiere nel corso di un torneo balneare. Da allora non si è più spostato. È rimasto tra i pali, quelli che con il tempo sono diventati una dimora entro cui ha saputo costruire i propri sogni.
Prima al Milan come riserva di Ricky Albertosi, dove si ritrova in campo con personalità del calibro di Rivera, Turone, Benedetti e Maldera. Riferimenti che incontra nuovamente in giallorosso, nel ’79 rischia di lasciare la Capitale dopo una gavetta non indifferente. Sulle sue tracce ci sono Avellino, Pescara e Atalanta.
La Dea era appena scesa in Serie B, ancora non era la corazzata di Gasperini. Tancredi resta a Roma e si prende cuore e anima dei tifosi grazie a Nils Liedholm che lo convince a restare prima e a farlo giocare poi. Titolare dal 1980 al 1989. Il ciclo degli anni d’oro giallorossi, con il paradiso toccato grazie allo Scudetto del 1983 e della Coppa Italia che lo stesso Tancredi contribuì a vincere, fino all’inferno della Coppa Campioni sfumata. Il più grande rimpianto della storia giallorossa.
Il ruolino dell’indimenticato portiere vanta 289 presenze totali in giallorosso, di cui 258 consecutive. Il momento più bello, per lui, però coincide l’anno successivo al suo trasferimento da Roma. Torna nella Capitale con la maglia del Torino e la Curva Sud gli dedica due striscioni: “Franco nel cuore degli ultrà”, il primo. “Ciao Franco, bentornato”, il secondo.
In quell’occasione, quando tornò negli spogliatoi, dopo aver baciato lo stemma capitolino sulla tuta di un raccattapalle, disse: “È il giorno più bello della mia vita”. L’ex estremo difensore è anche nella Hall Of Fame giallorossa. Era un perno inamovibile agli occhi del Barone. La Roma, come il calcio, si modifica. Il suo amore, però, non passa mai.
Dopo Buffon, è stato il calciatore con più minuti giocati consecutivamente in Serie A. E, dal Campionato 1980-‘81 fino al campionato 1987-‘88, non ha mai saltato una partita.
Qual è il segreto per mantenere ritmi simili e crede sarebbe stato possibile lo stesso nel calcio moderno?
“Ne sono molto orgoglioso e ci tengo tantissimo. Ho fatto tanti sacrifici, nessuno mi ha regalato niente. Il calcio pur essendo un gioco di squadra, il portiere è sempre solo. Ci sono stati tanti allenamenti, ho cercato di curarmi fisicamente e stare al top. Nel calcio moderno è più difficile battere questi record: ci sono tante partite in più, basti pensare che solo in campionato prima erano 30 e ora 38. E in più ci sono le coppe. Ora il secondo portiere deve essere una valida alternativa che magari gioca nelle coppe”.
Nel 1983 Tancredi è stato un protagonista assoluto del secondo Scudetto della Roma.
Che ricordo ha di quei tempi e di quell’annata indimenticabile? E poi se vuole raccontarci l’esperienza, invece, negativa vissuta l’anno successivo nella finale della Coppa dei Campioni.
“La finale dell’84 è una ferita che non si rimarginerà mai, potevamo fare en plein e tra l’altro quell’anno la Coppa dei Campioni si giocava a Roma. La forza della squadra è stata che ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo poi conquistato la Coppa Italia, dimostrando grande attaccamento alla maglia. Purtroppo quell’arbitro ci massacrò, l’anno dopo quando venne Eriksson ci parlò e gli disse che aveva dato la regola del vantaggio quindi un doppio errore dato che su carica del portiere non esiste: questo ci ha fatto ancora più arrabbiare. Lo Scudetto dell’83 lo abbiamo meritato, giocavamo un calcio moderno e tecnico accompagnato dal grande allenatore Liedholm a cui devo tutto. Sono capitato al posto giusto al momento giusto. Il gruppo era fantastico”.
Che rapporti ha avuto con il presidente Dino Viola e come lo ricorda? C’è un aneddoto che ci vuole raccontare?
“Devo tantissimo al presidente Viola che mi ha tenuto sotto la sua ala. Un aneddoto che non dimentico? Dovevo andare a giocare un’amichevole in Svizzera con la Nazionale olimpica, chiesi alla Federazione di rimandare di un’ora la partenza per Milano, dove ci saremmo dovuti ritrovare con la squadra, perchè mia figlia si doveva operare alle adenoidi. La Federazione disse no, e Dino Viola rimase lui personalmente in ospedale con mia figlia, ad aspettare che si svegliasse. È stato come un secondo padre per me e per tutti i suoi giocatori”.
Con quali aggettivi descriverebbe la tifoseria giallorossa, soprattutto in anni di gioia come quelli dello Scudetto e di una finale di Coppa dei Campioni?
“Noi eravamo un bel gruppo unito, abbiamo fatto grandi sacrifici sennò i risultati non li riesci a fare. I tifosi mi hanno voluto sempre bene e ho cercato di ricambiare il loro affetto con le mie prestazioni. Il primo tempo delle partite lo giocavo sempre sotto la nostra curva, era un vezzo. Mi viene da ridere quando sento dire ‘A Roma non si vince tanto perchè c’è troppa pressione’. Ma quale pressione? Quello è amore: è una fede”.
Non possiamo che concludere la nostra intervista chiedendole di parlarci di Agostino Di Bartolomei che lo ha conosciuto da vicino.
“Agostino l’ho conosciuto nella Nazionale Under 19 quando lui era alla Roma e io al Giulianova. Siamo diventati amici e poi mi ha aiutato tantissimo quando sono arrivato a Roma. Era un capitano a tutto tondo perchè aiutava tutti i nuovi: a trovare casa, a fare gruppo e stare insieme dopo l’allenamento. Non era un capitano solo tecnico, era capitano perché nonostante le grandi personalità che c’erano nello spogliatoio, quando parlava lui stavano tutti zitti. Ogni anno a maggio si riapre sempre una ferita che non si rimarginerà mai”.