Massimo Palanca continua a stupire ed emozionare più di un calabrese. È introverso, timido, taciturno, il contrario del tipico italiano che parla ad alta voce e, quasi sempre, ad alta voce, gridando. Palanca è il più grande idolo della storia dell’Unione Sportiva Catanzaro 1929, il club giallorosso di Catanzaro, città del Sud che sorge su tre monti imperfetti, affacciati sul Mar Tirreno a Ovest e sul Mar Ionio a Est più azzurrognolo, l’altro più turchese, nella parte più stretta della penisola. Palanca è dunque l’eroe di Pino Lostumbo, più calabrese di Catanzaro della scultura de Il Cavatore all’inizio di corso Giuseppe Mazzini. Ma Palanca non gioca più nel Catanzaro. Lo raccontano ancora i calabresi. Quello che è nato, cresciuto, vive e lavora tuttora a Catanzaro, nella casa appena oltre il ponte Bisantis e, a pochi metri, la concessionaria Yamaha Lostumbo Moto, è Pino, il marito sessantaseienne della cugina argentina del giornalista sportivo Roberto Parrottino.
Ricapitoliamo: Parrottino è arrivato a Catanzaro a mezzogiorno di domenica 21 ottobre 2018 in treno. Suo cugino lo aspettava con Pino. Gli aveva detto di scendere a Germaneto. Ma l’insegna, in Germaneto, diceva “Catanzaro”. “È una stazione nuova”, gli disse più tardi, “è la prima volta che veniamo”. Scese perché glielo disse in tempo il capotreno di Trenitalia, una ragazza con berretto, giacca e camicia da macchinista, bigodini neri e occhi verdi alla quale aveva indicato la sua destinazione. C’erano solo suo cugino e Pino, nessun altro tranne loro. È ripartito da Catanzaro martedì alle sette del mattino. È salito sullo stesso treno nello stesso posto, nella stessa stazione. La stessa ragazza ha registrato il suo biglietto. Nelle meno di 48 ore in cui è stato nella terra della famiglia di suo padre, conoscendo il suo amore per il calcio, Pino lo ha chiamato e ribattezzato Palanca. Ha saputo di Palanca – e di tutto il resto – dall’allegra verbosità di Pino.
Palanca, gli disse come per aprire il fuoco quando cominciarono a parlare di calcio italiano, lo chiamavano “il Cruijff dei poveri”. Palanca giocava con la maglia numero 11 del Catanzaro e, pur essendo un attaccante, guidava la squadra come l’olandese, da ogni parte del campo. Fu lui l’artefice dell’ultima promozione in Serie A, nella stagione 1977-‘78. Nel 1979 segnò tre gol in trasferta contro la Roma: il primo, l’olimpico. Palanca ha segnato tredici gol da calcio d’angolo nella sua carriera. Era, oltre al Re di Catanzaro, Piedino di fata: il piede di Fata era di misura 37. Lo scarpino sinistro, nello stesso tempo, sparava come un fucile automatico. Dopo un anno in Serie A, si trasferisce al Napoli. Mancava una stagione all’arrivo di Maradona.
Non è andata bene. Dicono che fosse quasi in pensione, che si fosse chiuso in attesa di essere chiamato per tornare a casa. Ritornò nel 1986. Il Catanzaro era sceso in C1, la terza serie. Fu promosso e, ad un certo punto, non fu più promosso in Serie A nel 1988. Contro la Triestina, Palanca calciò un rigore che colpì il palo. Quando la partita finì senza reti, pianse mentre andava negli spogliatoi. Sebbene mancassero 17 partite, ebbe un esaurimento nervoso. Non si è mai più ripreso. Si ritirò all’età di 37 anni nel 1990.
Lo scrittore messicano Juan Villoro dice che il calcio avviene due volte: in campo e nella mente del pubblico. A Catanzaro lo stadio è sempre stato il tempio laico di una fede autentica. C’era un albero in mezzo alla tribuna, come se fosse un tifoso. Su YouTube c’è un documentario della Rai con la storia di Palanca. “Per segnare un gol su calcio d’angolo c’è da dire che serve l’aiuto di un altro compagno di squadra”, borbotta Palanca. “Ad esempio ho avuto quello di Claudio Ranieri, che si metteva davanti al portiere in modo che non vedesse la palla”. C’è un frammento di un’intervista alla Domenica Sportiva, un classico della televisione italiana. “Ho sempre calzato il 37”, dice Palanca. Il giornalista prova ad andare più in profondità, ad andare oltre: “Tutti i grandi capocannoniere hanno il piede piccolo, perché non lo spieghiamo ai nostri telespettatori?” La fronte di Palanca è sudata, muove appena i folti baffi illuminati dalle luci dello studio. “Prima di tutto”, risponde, “perché non è cresciuto, e poi perché ho dovuto adattarmi alla situazione”. Appare subito Piero Braglia, compagno di squadra di Palanca negli anni ’70 e ’80, seduto sulla tribuna del campo di Catanzaro, con l’albero dei tifosi sullo sfondo: “Qui è una leggenda per come ha dovuto affrontare tutto come persona”. Ma lo è anche con i catanzaresi come Pino.
Palanca ha ancora i baffi, anche se grigiastri e meno carichi. È un mito vivente del calcio, un Carlovich Trinche all’italiana. Palanca si è allontanato da Catanzaro, ha selezionato giovani nelle Marche e gestito un’attività di abbigliamento a Camerino, vicino ad Ancona, dove è nato. E rideva come un bambino quando nel documentario dicevano il Cruijff dei poveri. A Buenos Aires Parrottino ha indagato. Ha letto che lo scrittore Ettore Castagna ha pubblicato il romanzo Tredici gol dalla bandierina, nome ispirato al record di gol olimpici.
C’è un’analisi di un gruppo di matematici che spiega come hanno disegnato gli angoli da gol dal calcio d’angolo. C’è una foto di Andrea Pirlo in posa con una maglietta con sopra la faccia di Palanca. Quando era ragazzo, circa quindici anni – o più – prima di recarsi in Italia per la prima volta, Pino mandò a Roberto la maglia del Catanzaro tramite la zia, e lui non l’avevo mai indossata perché era troppo grande. L’aveva riposta in un armadio a casa dei suoi genitori, insieme ai trofei di calcio per bambini e ad altri soprammobili. Ha faccio in tempo a recuperarla: è la maglia di Massimo Palanca.
Mario Bocchio