Zero punti, zero gol fatti e dodici subiti in quattro partite. Trent’anni fa la stagione del ritorno in Serie A del Padova dopo 32anni era cominciata malissimo. Peraltro col Napoli di Fabio Cannavaro, Benny Carbone e Pino Taglialatela da affrontare al San Paolo alla quinta giornata tutto avrebbe lasciato presagire il prosieguo della striscia negativa. Col primo tempo finito in nove uomini poi le speranze erano pochissime, nulle col Napoli in vantaggio per 2 a 0 dopo 10 minuti dall’inizio del secondo tempo.
La rimette in carreggiata Damiano Longhi, veterano del Padova che trasforma il rigore che vale il 2 a 1, il primo gol in stagione e l’avvio di una rimonta incredibile, in una gara che finirà 3 a 3: gli altri due gol li farà Pippo Maniero. “Certo che mi ricordo – dice Longhi – fu il primo punto in stagione, colto al San Paolo in inferiorità numerica, il primo tassello verso una salvezza che a quel punto nessuno si aspettava, ma che poi meritammo, anche se in uno spareggio contro il Genoa”.
Prima di Napoli c’erano state sconfitte pure abbastanza clamorose: “La prima contro la Samp di Eriksson: io avevo ventotto anni e l’esordio in A era un sogno chiaramente. Ma con quelli lì a Bologna (lo stadio Euganeo non era ancora pronto) non fu esattamente come me l’ero immaginato: giocavano con cinque mezze punte praticamente e non sapevi chi marcare. Da un lato ti scappava Platt, dall’altro Mancini e poi Lombardo e ancora Jugovic: una squadra incredibile”. Finirà 5 a 0 infatti, battesimo del fuoco in una categoria dove il Padova mancava da 32 anni e nel 1994 si presentava con la stragrande maggioranza di esordienti: “A partire da mister Sandreani, – ricorda Longhi – tatticamente bravissimo e bravo poi a spiegare il calcio in poche e semplici parole. Con noi fu anche fortunato: trovò un gruppo ben amalgamato che riuscì a centrare la promozione in A”.
E il colpo per la massima serie si chiamava Alexi Lalas, primo americano a giocare in Serie A, con la dirigenza veneta che lo prese suscitando anche moltissima curiosità intorno al difensore-cantante, che Longhi ricorda con affetto: “Arrivò con questa aura da rockstar ma era innanzitutto un ragazzo per bene. Molto intelligente, molto spiritoso anche se un po’ permaloso e con una mentalità completamente diversa da quella che si viveva nel calcio europeo e italiano in quel periodo. Alexi diceva ‘Nel momento in cui hai dato tutto in campo poi puoi anche perdere, la vita continua’, era capace di non farsi condizionare dai risultati, dalle sconfitte. Aveva uno spirito molto bello”. Difensore Lalas, più offensivo Damiano Longhi, piedi buoni e bella testa in un momento in cui il fantasista cominciava a diventare di troppo.
E se Baggio resta Baggio e Zola resta Zola, Damiano Longhi nel Padova il mestiere deve reinventarselo: “Nel 4-4-2 partivo da sinistra e mi accentravo, visto che nelle piccole per il fantasista di spazio ce n’era poco praticamente mi sono inventato io il ruolo. Oggi con gli attacchi a tre e gli esterni alti brevilinei avrei avuto sicuramente più fortuna, in quei periodi lì bisognava adattarsi, ma non posso lamentarmi”.
Dopo la prima salvezza insperata però al secondo anno in A il Padova retrocede, e Damiano Longhi nel 1996 è il primo italiano a giocare nella Liga: “Sì, all’Hércules di Alicante, un’esperienza molto bella in un campionato importante. Rimasi impressionato all’esordio, contro l’Extremadura, del calore dei tifosi e dell’accoglienza che mi riservarono, per non parlare della seconda al Bernabeu contro il Real Madrid, perdemmo 3 a 0 ma che emozione giocare davanti a 90mila persone”. Resta solo sei mesi però: “Sì, volevo giocare, col nuovo allenatore non avevo questa possibilità e sono rientrato in Italia, alla Reggiana”. Oggi allena i ragazzi, l’Under 13 del suo Padova: “Differenze rispetto ai miei tempi? Ma no, non si possono fare, epoche completamente diverse: oggi i ragazzi hanno più scelte, la differenza la fa la passione e l’ambizione, a me piace lavorare con loro perché hai materia da plasmare, ti gratifica aiutarli a crescere”. Per un periodo si è cimentato anche nella ristorazione: “Ma ho detto basta, non era il mio ambiente: a ognuno il suo”, meglio sfornare assist prima, e campioncini poi.