Passato, dopo la perdita dei diritti tv del calcio da parte della Rai, da una dignitosa vecchiaia a una morte precoce e inattesa, “Novantesimo minuto” è diventato oggetto di nostalgia oltre che di curiosità per la sua “fabbrica” e per la vita dei suoi protagonisti, “i pupazzoni” come li chiama (chiamando anche sè stesso) Luigi Necco nel libro di Antonio Dipollina (Quando c’ era 90° minuto, Sperling&Kupfer), epopea di quella trasmissione ma anche breve ritratto dell’ Italia in cui nacque e di cosa è venuto, o sta venendo, dopo la sua fine.
Nella sua imbalsamazione affidata al ricordo, a “90° Minuto” è capitato un privilegio raro, quello di avere subìto un confronto, e di uscirne per ora vincitore, con la ridda di trasmissioni, sicuramente avanzate dal punto di vista della tecnologia, ma prive di quel sentimento autentico e antico , così da far sospettare che gli staff e le idee non sono così paciocconi come la bonarietà di Paolo Valenti e il faccione di Castellotti facevano presumere, ma che ci fossero dietro organizzazione e professionalità per allestire un programma che evidentemente non era così semplice da mandare in onda.
In realtà ogni erede avrebbe avuto difficoltà perché “90° Minuto” ha creato un appuntamento popolare che dal ‘ 70 in poi ha radunato davanti alla tv gli italiani appassionati di calcio, “una messa liturgica” l’ha definita Giampiero Galeazzi (che sarebbe stato il sacerdote di quella messa dopo Valenti e Maffei), colui che il giorno dello scudetto del Napoli entrò nello spogliatoio, chiuse la porta agli altri, diede il microfono a Maradona e gli disse: «Fai tu le interviste».
Quando nacque (l’ idea fu di Paolo Valenti in collaborazione con Remo Pascucci e di Maurizio Barendson che ne fu il primo conduttore), l’ Italia era un paese affamato di notizie, di immagini, di modernità, non solo nel calcio, costretto a collegamenti alla radio con “Tutto il calcio minuto per minuto” solo dal secondo tempo.
Durava pochi minuti, ma il successo fu immediato (e fu allungato), grazie a un ritmo e a una scansione (dai campi periferici e dalle squadra di bassa classifica a quelle di testa e alla città) che creava una spirale ascensionale, un avvitarsi della vita dalla campagna alla metropoli, con il piacere di scoprire la provincia (e i suoi “inadeguati” protagonisti, da Tonino Carino a Ferruccio Gard) e di magnificare le metropoli, in una trasmissione che accomunava la nazione secondo la sua geografia (temporanea, di anno in anno, a seconda delle squadre della A) del calcio. Ma soprattutto creò una serie di personaggi che oggi rivelano la propria recita, la propria “ipocrisia”.
Necco ha confessato che di calcio non gliene importava nulla e si capisce che considera la parte migliore di sé quella di indagatore di camorra (ma non sempre il giudizio che si ha di sé è il più giusto); Castellotti spiega che, come per il costume di una maschera del teatro dell’ arte, indossava apposta le sue orrende giacche a scacchi; Ferruccio Gard, dall’ indimenticabile plumbea occhiata, protesta e si dichiara l’ inventore del reportage allegro (ma forse sta prendendo in giro ancora tutti); Gianni Vasino ricorda l’ immensa popolarità («90° minuto era come avere Miss Mondo che ti aspetta fuori della porta di casa») e come spettasse al ruolo difendere la municipalità (e in questo era maestro Tonino Carino da Ascoli) ma racconta anche come l’ Avvocato Agnelli si raccomandò con i cronisti di raccontare “bene” la faccenda del gol di Turone.
E poi Marcello Giannini, Luigi Lucchini, lo stesso Galeazzi (un gruppo che Gard definisce «la nazionale del giornalismo sportivo»), gli autori di un racconto dai tempi implacabili (un minuto e mezzo a servizio, fosse finita 0-0 o 7-3) con piccole divagazioni eccentriche (come il famoso «Napoli chiama e Milano risponde» di Necco, agitando tre dita per indicare il 3-0).
«Magari facevamo del cabaret, ma non dicevamo mai delle fesserie» rivendica orgogliosamente Gard.
La grande lezione di Paolo Valenti fu che si fa tv volendo bene ai propri bizzarri inviati, facendone eroi popolari (e non prendendoli in giro) ma che il tutto era comunque un accessorio dello sport e dell’ informazione. Una lezione che i tempi (le pay tv, gli sponsor eccetera) avrebbero stravolto. Di quell’ epoca e di quella trasmissione non c’ è da avere nostalgia e Dipollina è l’ ultimo ad averne. «Quella è una storia finita per sempre, ne verrà un’ altra diversa». Ma sarà davvero ancora possibile?