Erano anni di piombo, ma lì dentro brillava l’oro. Era la Torino delle Brigate Rosse ma anche di Pulici e Graziani, di Bettega e Zoff. Pochi mesi hanno raccontato la storia d’Italia, di uno sport e di una città, più e meglio di quei dodici del 1977, ai quali Matteo Marani e Sky nel 2020 hanno dedicato una puntata di Storie. Si intitolava “Torino di piombo” ed è un pezzo di vita per tanta gente. Un’emozione piena di paura, una gioia coperta di nuvole del colore del fumo.
Il documentario incrocia, su piani diversi, la stagione del terrorismo e il campionato dei 51 punti (Juve) e dei 50 (Toro), un cammino sportivo irripetibile in un momento mai più ripetuto, speriamo in eterno, nella storia del nostro paese. C’erano due squadre bellissime, quella granata che portava lo scudetto sulla maglia (con un piccolo toro rampante nello spicchio bianco del tricolore) e quella bianconera che aveva un allenatore nuovo, Giovanni Trapattoni, e un presidente che per gli Agnelli è stato il Valletta del calcio: si chiamava Giampiero Boniperti. La bellezza del lavoro di Marani è il controcanto di due musiche che non si sovrappongono ma fanno armonia, perché il calcio racconta sempre la vita e la vita ha bisogno del calcio, se lo si ama, per essere ancora più intensa, ancora più profonda.
Le immagini sono formidabili e contengono anche documenti inediti, come la lettera che la Juventus mandava ai suoi giocatori in vista del raduno di Villar Perosa, “non tolleriamo capelli lunghi”. Ci sono le pistole dei terroristi e dei Carabinieri, e le aste dei vessilli. Ci sono i baffi del generale Dalla Chiesa e quelli di Causio. Ci sono le mani degli operai che stringono cacciavite e chiavi inglesi, e lavorano in catena di montaggio. Ci sono le maglie di gioco inquadrate da vicinissimo, in modo che si veda la trama del tessuto com’era allora, con le cuciture in rilievo, la stella d’oro della Juve, lo scudettone del Toro, vite in rilievo e tessuti spessi: allora eravamo così. Ci sono i faldoni polverosi negli schedari degli archivi.
Ci sono le riprese dall’alto della città, le sue piazze, i suoi viali alberati, con una dominante di rosso (l’autunno, i mattoni, il sangue, le maglie color del vino). E ci sono occhi, sguardi, un tenerissimo bacio appoggiato da Boniperti sulla guancia del Trap a Bilbao, con la Coppa Uefa appena vinta. E ci sono, naturalmente, le parole. Quelle di Ezio Mauro che racconta una vita da cronista, ogni giorno un attentato, un gambizzato, un morto ammazzato, l’avvocato Fulvio Croce, il giornalista Carlo Casalegno al quale sparò in testa Raffaele Fiore insieme Patrizio Peci, è giusto che anche i nomi degli assassini non vadano dimenticati. Peci che confessando tutto al generale Dalla Chiesa permise di chiudere in parte quella stagione nera, e per questo i suoi ex compagni gli uccisero il fratello Roberto.
Scorre il tempo rapido e infinito di quel ’77, la marcia dei 40 mila in una Torino che arrivò ad avere un milione e 200 mila abitanti (oggi sono meno di 900 mila), i funerali ininterrotti, il gol decisivo di Furino contro il Napoli (Furino!, il più operaio di tutti nella squadra per la quale gli operai tifavano, ed era quella del loro padrone), e naturalmente le testimonianze. Eraldo Pecci che ora ci scherza (“Se noi del Toro avessimo fatto 60 punti su 60, la Juve ne avrebbe fatti 61”), Sandro Veronesi che racconta l’emozione di un’identità, Paolo Pulici che ancora non l’ha digerita: “Chissà perché le nostre partite finivano sempre 10 minuti prima di quelle della Juve, forse gli arbitri non regolavano bene gli orologi”.
E non c’è niente di blasfemo o fuori luogo nell’accostare le vicende di una nazione sotto scacco e di una fabbrica avviata verso il precipizio (sapranno riscattarsi e risorgere entrambe, l’Italia e la Fiat) alla corsa di due squadre che in poche centinaia di metri di città, e in uno stadio solo, il Comunale, racchiudevano tutto quello che c’era di meglio nel calcio non solo in Italia, visto che in quella stagione nacquero le nazionali molto torinesi di Enzo Bearzot, un ex granata, per i mondiali del ’78 e dell’82. Calcio e vita in un nodo strettissimo.
Ci sono passaggi storici, in questo lavoro superlativo, che meritano di essere ricordati. Come quando Giugiaro disegnò la Panda, chiamato da Carlo De Benedetti, e molto per l’azienda cambiò. Oppure quando il colonnello Gheddafi si prese il 10 per cento della Fiat, e fu puro ossigeno (anche Claudio Gentile, nato a Tripoli, lo chiamavano Gheddafi). O il terribile processo alle Br, quando non si riuscivano a trovare i 6 giudici popolari perché tutti rinunciavano, avevano paura di morire, era quasi sicuro che poi sarebbe accaduto. Quadri Fiat, capireparto, impiegati, giornalisti: gente inerme che usciva di casa la mattina per prendere il tram o salire in auto, senza sapere se avrebbe fatto ritorno a casa. All’ospedale Cto, il Centro traumatologico ospedaliero, un intero piano, il dodicesimo, era riservato ai gambizzati: e furono in tanti a portare per sempre il segno di quel piombo addosso, una zoppia, un bastone, una sedia a rotelle. Alla fine, lo scudetto lo vinse la Juve con quel punto in più. Alla fine, i brigatisti vennero condannati a 210 anni di galera. Alla fine, anche dopo tutti questi anni, una fine non c’è.