Stefano Chiodi avrebbe compiuto 53 anni. Ci ha lasciati nel 2009. Attaccante fisicamente dotato e agile nel dribbling, militò nelle fila del Milan nelle stagioni 1978-’79 (conclusa con la conquista del decimo scudetto, cui contribuì con 7 reti) e 1979-’80. Chiodi fece il suo esordio in rossonero il 30 agosto 1978 in Lecce-Milan 2-3 e totalizzò 50 presenze in campionato (14 gol), 10 in Coppa Italia (6 gol) e 7 presenze in competizioni internazionali (2 gol). Chiodi ha iniziato la carriera nel Bologna, poi Teramo, ancora Bologna, quindi Milan, Lazio, Bologna, Lazio, Prato, Campania, Rimini, Pinerolo e Baracca Lugo.
Aveva solo 53 anni, Stefano Chiodi. Aveva 53 anni e si era ribellato ad alcuni grossi agguati, nella sua vita. Come a Firenze, quando nel corso di un derby dell’Appennino, saltando di testa, si era scontrato duramente con Ciccio Graziani, era precipitato per terra, battendo il capo, perdendo i sensi. Era andato in coma, Stefano, quel giorno. Ma era sorretto da un fisicaccio e la generosità non gli faceva difetto. Il giorno dopo non ricordava più nulla, aveva un problema all’orecchio, ma stava bene. Quello fu il giorno più brutto della sua carriera. Il più bello, senza dubbio, quello dell’esordio. Al Dall’Ara, ospite il Milan, il bomber nascente aveva segnato un grande gol, come i suoi migliori, sfruttando un’elevazione prodigiosa, arrampicandosi in cielo per incornare il pallone del gol del Bologna. Era la festa della matricola, quel giorno. Segnò lui e segnò un ragazzino impertinente in maglia rossonera, anche lui al debutto: Francesco Vincenzi. Destini incrociati, i loro. Poco tempo dopo i due club se li scambiarono e al Bologna andò pure una cifra da capogiro, per quei tempi: un miliardo. Mister miliardo Chiodi a Milano non sfondò, finendo vittima di quella cifrona, come se fosse stata colpa sua essere pagato così. Tornò al Bologna, a fine carriera. Dopo il calcio non era rimasto nell’ambiente. Passava per un “giuggiolone” ma solo agli occhi di chi non lo conosceva bene. Non un parlatore, ma un ragazzo di cuore – lui organizzò il Memorial Fiorini per ricordare Giuliano – e un ragazzo che aveva saputo ben investire i suoi soldi, nella provincia di Bologna, un albergo prima e un bar poi.
La Lazio prelevò Chiodi insieme a Bigon dal Milan, anch’esso retrocesso per lo stesso motivo del totonero, come parziale contropartita per la cessione di Giordano; vendita mai conclusa per la squalifica di quest’ultimo e che fece dirottare il giovane Mauro Tassotti sotto la Madonnina. Campionato 1980-’81, i laziali sono in piena lotta per la promozione in A e nella penultima giornata sfidano all’ Olimpico il pericolante Vicenza. La prtita è però dui quelle rognose, le due squadre sono sull’1-1.
A tre minuti dalla fine, l’episodio fatale. Dopo un’azione in mischia, Mastropasqua finì a terra in piena area vicentina. Il guardialinee alzò la bandierina, l’arbitro Lops indicò il dischetto del rigore e lo stradio esplose in un urlo liberatorio. Decisione esagerata e proteste vibranti da parte dei veneti.
Alcuni tifosi della Curva Nord entrarono in campo a festeggiare mentre Stefano Chiodi adagiava il pallone sul dischetto. Lo specialista laziale, cecchino infallibile dagli undici metri, venne ripetutamente disturbato dai giocatori avversari prima della battuta. Furono attimi di tensione pura: l’attaccante solo davanti al portiere e l’intero stadio con il fiato sospeso.
Quel tiro poteva dare un senso a mesi di impegno e speranze. La porta, in quelle circostanze, diventa piccolissima, l’estremo difensore sembra un gigante. Ed è inutile sperare di “non aver paura di tirare un calcio di rigore” che va benissimo nel testo di una celebre canzone ma sul campo un penalty trasformato o sbagliato può contrassegnare una carriera in positivo o in negativo.
Sugli spalti regnava un silenzio irreale. Lo sguardo di Chiodi, il centravanti dalla folta chioma che Liedholm tre anni prima aveva valorizzato con la maglia del Milan, sembrò quello di Clint Eastwood nei western della trilogia del dollaro di Sergio Leone. Sulla linea di porta si posizionò Di Fusco, immobile, quasi impietrito. La rincorsa dell’attaccante laziale non fu molto lunga, il tiro forte ed angolato, alla destra del portiere. Fin troppo angolato. La palla toccò il palo esterno e si perse sul fondo. Il silenzio dei tifosi divenne un rantolo di delusione mentre Chiodi, mani sui capelli, rimase ancora più solo. La radio diede i finali dagli altri campi: Genoa e Cesena avevano vinto in trasferta contro Atalanta e Foggia. Per la Lazio fu la fine di ogni speranza di promozione. In quegli undici metri si compì la parabola biancoceleste: un’annata carica di speranze, svanite sul più bello e nel modo più beffardo.