Non ci volevano credere, i tifosi del Torino, quando la sera del 15 ottobre 1967 la notizia iniziò diffondersi in città. Non poteva essere vero, il destino non poteva essere così tremendamente crudele. In tanti pensarono ad uno scherzo. Uno scherzo di cattivissimo gusto, ma pur sempre frutto della fantasia di qualche buontempone. E invece no. Era tutto vero. A meno di vent’anni dall’ultima straziante tragedia, quella che sulla collina di Superga si era portata via un’intera squadra, il mondo del Toro veniva sconvolto da un’altra disgrazia. Era vero, Gigi Meroni era morto. Gigi Meroni non c’era più. Non ci potevano credere, non ci volevano credere, i tifosi, ma era tutto vero. Quei tifosi che una settimana più tardi, al Comunale, avrebbero assistito ad una delle pagine più incredibili, surreali e leggendarie della storia granata. Luigi Meroni, per tutti Gigi, arriva al Torino nell’estate del 1964. Il presidente Orfeo Pianelli versa al Genoa la cifra record di 300 milioni di lire: un’enormità, per un giocatore che ha da poco compiuto 21 anni. Una cifra perfettamente legittima e giustificata, a fronte dell’immenso talento che il Torino porta sotto la Mole. Gigi non ci mette molto a diventare l’idolo del popolo granata, dentro e fuori dal campo. Sul rettangolo verde, con il numero 7, il piccolo ragazzo venuto da Como fa impazzire le arcigne difese dell’epoca con serpentine irresistibili, finte ubriacanti e dribbling a ripetizione.
E fuori dal campo? Bè, fuori dal campo Gigi è, se possibile, ancor più geniale. Nel tempo libero Gigi dipinge, disegna i vestiti che poi lui stesso indossa, porta la barba lunga e i basettoni: diventa un simbolo del sentimento di ribellione giovanile che sta nascendo in quegli anni che conducono al ’68. È’ un pazzo, Gigi: si dice che nella sua Como passeggi per strada con il suo animale domestico al guinzaglio. Nulla di strano, non fosse che quell’animale è una gallina. Un episodio su tutti racconta e descrive alla perfezione quel che Gigi Meroni rappresenta per il popolo granata. Tutto accade quando in città inizia a circolare una strana voce: Meroni è nel mirino della Juve, Agnelli ha presentato un’offerta stratosferica e Pianelli ci starebbe pensando. Si scatena la rivolta: i tifosi granata si presentano a centinaia sotto la sede societaria in corso Vittorio Emanuele II. Gigi non può andarsene, e soprattutto non può andare da “quelli là”. Gigi è il simbolo della rinascita granata dopo il buio decennio post Superga, Gigi è il primo vero campione che veste la maglia granata dopo gli Invincibili volati in cielo nel 1949. E così, Pianelli si lascia convincere e interrompe le trattative: l’offerta dell’Avvocato ammonta ad un totale di 750 mila euro, ma il numero uno granata dice di no. I tifosi granata possono continuare a godersi il loro campione. Fino alla sera del 15 ottobre 1967. È domenica, nel pomeriggio il Toro ha battuto per 4-2 la Sampdoria, nonostante l’espulsione dello stesso Gigi. Il clima è disteso, Fabbri, tecnico granata, permette ai ragazzi di lasciare il ritiro post-partita e tornare a casa dalle proprie famiglie. Ad aspettare Gigi, a casa, c’è Cristiana Uderstadt: lei, sposata con un regista romano, attende l’annullamento del suo matrimonio da parte della Sacra Rota. La sua convivenza con il numero sette granata è vista come un qualcosa di scandaloso dall’Italia degli anni Sessanta. Gigi, comunque, in quella sera del 15 ottobre 1967, lascia il ritiro e con il compagno Fabrizio Poletti attraversa corso Re Umberto. Il traffico post-partita non si è ancora diradato, Gigi e Fabrizio si fermano a metà carreggiata aspettando il momento buono per attraversare: lì, in un attimo, si spegne l’epopea della Farfalla Granata.
Una Fiat Coupè 124 sopraggiunge e travolge Gigi, colpendo solo di striscio Poletti: alla guida c’è il giovane Attilio Romero, tifoso granata, che nel 2000 diventerà poi presidente del Toro. Ironia crudele del destino granata. Poletti ne uscirà quasi illeso. Il corpo di Meroni, invece, viene sbalzato in mezzo alla corsia opposta, dove viene investito da una Lancia Appia che lo trascina per diversi metri. Gigi riporta fratture al bacino, alle gambe, al cranio. Inutile la disperata corsa in ospedale: alle ore 22.40 del 15 ottobre 1967 Gigi Meroni si spegne. La Farfalla Granata vola in cielo e raggiunge gli Invincibili. Il mondo granata è sconvolto, ai funerali partecipano circa 20 mila persone. A meno di vent’anni dalla tragedia di Superga, i tifosi del Toro si ritrovano a piangere un altro campione che ha lasciato troppo presto questo pianeta. Una settimana dopo quel maledetto 15 ottobre, però si deve tornare in campo. C’è la partita, e non è una partita qualunque. C’è il derby, il derby contro la Juventus. Un derby da giocare con la morte nel cuore, ma da vincere a tutti costi, per Gigi, per onorarne la memoria, per rendergli il doveroso omaggio. Sembra incredibile, ma nonostante la sua sconfinata classe, Gigi non aveva vinto nemmeno uno dei sette derby giocati da vivo. A Gigi resta una chance, il pomeriggio del 22 ottobre del 1967. Perchè Gigi è morto, ma quel pomeriggio scende in campo con i suoi compagni.
C’è la rabbia per una morte ingiusta in ogni contrasto di Ferrini, c’è la voglia di prendersi una parzialissima rivincita contro il destino in ogni sgroppata di Agroppi: c’è il ricordo di Gigi, c’è la voglia di ricordarlo con una partita indimenticabile, in ogni singolo gesto dei giocatori del Toro. La Juventus scende in campo, quel pomeriggio, ma sa che ci sarà ben poco da fare: perchè il Toro gioca in dodici, con il Toro, in campo, c’è anche Gigi Meroni, che vuole fare un ultimo regalo alla gente che lo ha tanto amato, prima di volare definitivamente in cielo librando le sue ali di farfalla. Ed è così che nasce una delle pagine più surreali ed emozionanti della storia granata, una pagina nel quale il soprannaturale si intreccia con il razionale, e non è facile stabilire dove si fermi l’uno e cominci l’altro. La Juventus viene spazzata via, e non potrebbe essere altrimenti.
Al terzo minuto Combin segna su punizione, passano altri quattro minuti e ancora il francese, tra i più grandi amici di Gigi, tra i più straziati dalla sua scomparsa, raddoppia colpendo dai venti metri. Nestor scarica sul campo tutta la sua animalesca rabbia, quel giorno: al 60′ fa tris. Juventus 0, Torino 3, tripletta di Combin. Nessuno, sugli spalti commossi del Comunale, ha dubbi: c’è lo zampino di Gigi, c’è lo spirito della Farfalla Granata in quelle undici furie che stanno annientando una squadra, la Juventus, che al termine del torneo si piazzerà al terzo posto. La leggenda, però si compie al minuto 67. Alberto Carelli, giovane ala prelevata dal Fanfulla, che fin lì ha trovato pochissimo spazio, fugge sulla destra. Corre come il vento, vola come una farfalla. “Ma quello è Gigi”, pensa qualcuno con gli occhi lucidi. No, è Alberto Carelli. Ma ha la maglia numero 7 del Toro, quella di Gigi, sta fuggendo via sulla destra, come faceva Gigi. Un difensore bianconero prova ad aggrapparsi a lui, ma cade rovinosamente. Impossibile prenderlo, Alberto è spinto da una forza sovrannaturale, in quella corsa c’è la mano di Gigi Meroni che sta accompagnando la maglia numero 7 del Toro verso la porta della Juventus. Carelli entra in area, calcia con l’esterno destro, è gol. Juventus 0, Torino 4. Per i granata ha segnato il numero 7. Un tuffo al cuore, per chi fino alla settimana precedente aveva visto quella maglia sulle spalle di Gigi Meroni.
Carelli segna, poi corre in porta, prende il pallone e lo alza verso il cielo. Carelli piange, e corre con quella palla poggiata sulla mano destra e alzata verso Gigi. “Guarda Gigi, ho fatto gol, abbiamo fatto gol. Lo hai fatto tu, questo gol, finalmente hai vinto un derby!” Il Toro vince 4-0, ma nessuno ha voglia di festeggiare. Ci sono solo lacrime, occhi lucidi, sguardi rivolti verso il cielo. C’è l’orgoglio di aver reso omaggio nel modo migliore ad un campione strappato troppo presto alla sua vita.
C’è la consapevolezza di aver vissuto un pomeriggio straordinario, un pomeriggio nel quale una forza ultraterrena ha posato la sua mano sul campo del Comunale di Torino trasformando undici calciatori in undici furie inarrestabili, concedendo anche un finale da leggenda con il gol del numero 7, il gol di quello che quel giorno era l’erede di Gigi, almeno nella casacca indossata e nella posizione in campo. Un derby per 4-0 il Toro non lo avrebbe vinto mai più, ma quel giorno non poteva andare diversamente. Perchè con le maglie granata, quel pomeriggio del 22 ottobre 1967, scesero in campo dodici giocatori. Anzi, undici giocatori più un angelo.
“Ma il futuro è il nemico più grande della maglia granata. Ogni volta che ha finto d’amarla, l’ha abbandonata”
Gigi Meroni – Filippo Andreani