Da più di trent’anni è titolare di una pescheria ad Asti, in corso Dante. La sua seconda vita. La prima, Mario Pandolfi l’ha spesa da calciatore professionista, calpestando campi in mezza Italia, da Potenza ad Asti, da Torre Annunziata ad Ancona, Vigevano, Alessandria, Tortona, Savona. Ha conosciuto la serie B e tutti i gironi della C, e infine i terreni della provincia piemontese. In serie A non ha mai esordito, anche se nella seconda metà degli anni Sessanta era fra i giovani più promettenti del vivaio juventino.
“Ci arrivai da Porto Recanati, dove sono nato. A 16 anni giocavo in Promozione nella Recanatese e un amico mi portò a Torino per un provino con i bianconeri. Mi schierarono centravanti in una partitella con i titolari. Mezze ali erano Del Sol e Sivori. Allenatore Heriberto Herrera, un paraguaiano dal fisico e dal modo di fare asciutto che per me avrebbe poi dimostrato una certa simpatia. Mi presero e partecipai a diversi tornei con la squadra giovanile. Tra i miei compagni in quell’équipe che si aggiudicò, fra l’altro, il torneo di Viareggio, già allora uno degli appuntamenti più importanti nel settore giovanile, c’erano Causio, Bettega, Viganò, Furino”. Tutta gente che avrebbe poi fatto una gran carriera in prima squadra. Lui nella massima serie non ci giocato per un niente, per una serie di circostanze sfortunate: scelte sbagliate, infortuni, allenatori che non capirono questo ragazzo dai piedi buoni, dalla corsa felpata e dal carattere forse un po’ fragile. “Bisogna incontrare le persone giuste al momento giusto. A me non è capitato. Ma non mi lamento. Ho giocato a calcio fino a quarant’anni, mi sono divertito e mi sono tolto tante soddisfazioni”.
Ad Asti ci era arrivato in prestito nella stagione 1968-‘69. Appena promossa, la Macobi di Bruno Cavallo si era fusa con l’Asti e disputava la serie C, confrontandosi con squadre dal ricco blasone: Udinese, Triestina, Alessandria, Pro Patria. C’erano fior di giocatori – Marmo, Chiaranda, Avere, Moriggia, Zanelli -, lui segnò nove gol ma non bastarono. L’Asti, dopo ripetuti cambi di allenatore, retrocesse. Mario però ad Asti aveva trovato la donna della vita: Meri, da cui ha avuto due figli, Luca ed Elisa, con cui condivide e condivideva la casa di Rocca d’Arazzo, dove vive ancora oggi, dopo che la moglie è scomparsa, vittima di una grave malattia.
Ma anche un’altra immane tragedia si è abbattuta su di lui: nel 2021 una valanga ha stroncato la vita del figlio Luca, alpinista e snowboarder. Torniamo al calcio. Chiusa la stagione astigiana, Pandolfi torna a Torino, dove è aggregato alla prima squadra nel ritiro precampionato. Ci sono Anastasi, Salvadore (anche lui si trasferì e visse poi ad Asti facendo l’allevatore di bestiame), Castano, Zigoni, Haller. Lui è poco più di un ragazzino e “a quel tempo il clima per i giovani nelle grandi squadre era più o meno quello delle reclute nelle caserme. Ci facevano portare le borse e pulire le scarpe. Io fui sistemato in camera con Helmut Haller, il fuoriclasse tedesco appena arrivato dal Bologna. Per un mese non mi salutò neppure. Finché una sera, prima di dormire, mi fece assaggiare il bicchierone di Coca-cola e whisky che si concedeva ogni sera. Un gesto di accoglienza”. Allenatore di quella Juve era l’argentino Luis Carniglia, reduce da Real Madrid, Fiorentina, Roma. Ma era mal sopportato dai “senatori” della squadra, che di fatto ne decretarono la sostituzione con Ercole Rabitti, promosso dalle giovanili. Avrebbe potuto essere il momento di Pandolfi, che proprio nelle giovanili aveva conosciuto Rabitti. Ma Mario era stato ceduto in prestito al Potenza, una squadra di C con grandi ambizioni che però avrebbe fallito la scalata alla B. Tornato a fine campionato a Torino, Pandolfi fu oggetto di uno scambio tra la società bianconera, che aveva ingaggiato come allenatore Armando Picchi, e il Livorno, allora in B. Nella città toscana comincia il suo periodo più nero. L’allenatore non lo ama, patisce un grave infortunio e la società finanziariamente è in pessime acque, tanto che l’anno dopo fallirà. La stazione successiva è Castellamare di Stabia: altro fallimento e lui, pagato con assegni scoperti, ci rimetterà pure l’ingaggio. Ma non demorde. Riscatta il proprio cartellino e riprende il suo girovagare, che si fermerà solo ad Alba, quasi vent’anni dopo. Nella capitale delle Langhe comincia anche la sua carriera di allenatore che proseguirà ad Asti con l’Astisport e il Don Bosco.
Ma il richiamo dell’Adriatico alla fine ha la meglio. Il fratello Carlo è pescatore (oltre che gestore di uno stabilimento balneare) e gli fornisce materia prima di ottima qualità per il negozio che nel frattempo ha deciso di aprire ad Asti. Lui stesso, d’estate, quando chiude il negozio per mancanza di pescato fresco (in Adriatico c’è il fermo), torna a casa e si dedica alla piccola pesca lungo la sua costa. “Il pesce è l’unica cosa di cui so qualcosa. Per passione e storia di famiglia. Per questo, finito il calcio, mi è sembrata la strada giusta da percorrere”. Gli amanti del pesce vero lo ringraziano. La sua clientela astigiana sa che da lui non troverà mai prodotto men che freschissimo o d’allevamento. Si fida ciecamente di lui, tanto che la maggior parte delle vendite le fa per telefono (con gran stupore dei colleghi che incontra al mercato di Genova). Sa che per avere buon pesce in tavola a mezzogiorno occorre svegliarsi presto. Del resto Mario dà l’esempio. Lui alle due di notte è gia al volante del suo furgone, in rotta verso il mare, a scegliere il meglio del pescato della notte. “Ce n’è sempre di meno ed è sempre più prezioso, ma chi viene da me conosce la qualità ed è disposto a pagarla il giusto”. E nella sua bottega, con uguale passione, si discute di triglie, branzini, campionati e calci di rigore.