Briegel campione di forza e per forza, uomo attaccato alla sua terra, alle sue radici culturali, alle sue semplici verità.
«Prima delle gare di atletica leggera non avevo particolari emozioni. La nausea è cominciata con il calcio, alla vigilia delle partite, importanti e non. Credo sia un male dal quale non si può sfuggire. Con gli anni ho imparato a neutralizzarlo. Ma solo in parte, perché io prima e dopo una partita di calcio sto male. È più forte di me».
Hans-Peter Briegel è un gigante dal cuore tenerissimo. Ha un aspetto che «mette paura ai bambini», come dice il suo amico Rummenigge, ma in realtà è un uomo molto sensibile.
«Rummenigge afferma che io prima di una partita mangio sempre almeno due bambini. È male informato. Per problemi di linea, ora sono costretto a mangiarne soltanto uno» commenta ridendo fragorosamente, e fa subito capire di essere un tedesco lontano dai luoghi comuni sulla sua gente.
«Non ti stupire del mio malumore prima e dopo una partita. Io sono di quelli che hanno voglia di vincere, sempre, in qualunque situazione. Persino quando la squadra ce la fa, se ho giocato male io sono di umore pessimo. Perché il calcio, anche se lo giochi in undici, è sempre un cimento particolare, una lotta con te stesso. Hanno un bel dire che è un gioco collettivo; ognuno di noi, se è sincero, deve confessare che la felicità è un sentimento legato al proprio rendimento, prima ancora di considerare il risultato ottenuto dalla squadra».
Briegel ci ha regalato questa confessione sotto la neve. È il primo atto del viaggio che stiamo cercando di fare nella sua vita di uomo e di campione. Ha ricordato i suoi inizi a Rodenbach, un paese di campagna: «Io sono un contadino…», poi ha fatto la storia delle sue vittorie in atletica leggera: «Sono stato per tre stagioni campione tedesco juniores di salto in lungo. Ero bravo, ma alla fine ho scoperto di divertirmi maggiormente con il calcio. Il pallone mi ha rapito. Forse ero un bambino poco cresciuto…».
Infine si è fatto coinvolgere nei ricordi legati al suo esordio nel calcio.
«Ho fatto il militare come autista. Niente di eroico. Avevo il diploma delle scuole superiori e non pensavo assolutamente di iscrivermi all’università. La Serie A la prima volta l’ho assaporata a vent’anni, nel Kaiserslautern. Sono rimasto legato, sposato a questo club per nove anni. Un vero amore, una parte importante della mia vita. Una volta giocavo ala sinistra, ma non riuscivo a migliorare. È stato l’allenatore del Kaiserslautern a cambiarmi ruolo, a mettermi a centrocampo, qualche volta persino in difesa. È stata la mia fortuna. E malgrado questo nel 1981-‘82, in 32 partite, ho segnato tredici gol. Forse per voi adesso tutto questo è incredibile, ma è cosi».
La confessione sotto la neve è terminata con qualche immagine legata ai risultati ottenuti:
«Non ho vinto molto nella mia vita, e questa è stata sempre un po’ la mia frustrazione, considerato il carattere che ho. Con grande orgoglio ricordo gli Europei dell’80, quando la Germania trionfò in finale allo stadio Olimpico di Roma contro il Belgio. Quel giorno fui veramente bravo. Ma tutti facemmo molto bene il nostro dovere. Forse è stata questa sete di vittoria non completamente appagata, a spingermi a venire in Italia. Le mie esperienze in Germania erano state molte, ma non sempre premiate. Era ora di cambiare. Ho detto alla mia ragazza: ti va di andare in Italia? Mi ha risposto: perché no?, e mi sono ritrovato a Verona, nella terra di Romeo e Giulietta. Ho dovuto persino rifare la scena del balcone: io sotto e la mia ragazza con la treccia, tutto per la televisione tedesca, una vergogna, non lo rifarei più. Ma sai, i tedeschi non hanno grande fantasia…».
Briegel ha parlato alternando alle mie affermazioni grasse risate. Un po’ è un modo di vincere la propria timidezza, un po’ è la fotografia di un carattere che non potrebbe essere meno tedesco.
«Ma sei vuoi conoscere di più sulla mia vita, vieni a casa. Qui mi intimidisco a raccontarti tutto, di fronte a compagni e tifosi».
Ed è stato cosi: e qualche giorno dopo questo antefatto nell’anti-stadio di Verona ci siamo rivisti a casa sua, a Bardolino, nella villetta a fianco di quella abitata da Preben Elkjaer.
PRECONCETTI
Mercoledì 5 marzo. Briegel è solo in casa. La sua ragazza, Inge, è andata da alcuni amici in Austria. Il direttore di fotografia Roberto Girometri, sceglie come primo set per la nostra intervista un angolo bar. Briegel si siede su un alto sgabello, appoggia il gomito sul banco e giura di dirci la verità: «Vivo qui con la mia ragazza. Anche a Kaiserslautern da qualche anno stavo con lei. Prima non avevo mai abbandonato la vecchia casa di campagna dei miei genitori. Quando sono arrivato a Verona, per la prima volta ho scoperto che convivere con una ragazza senza sposarla, è per certe regioni d’Italia ancora un fatto singolare, chiacchierato. Non so se si tratti di moralismo o puritanesimo. Certo è stato subito un modo per capire che avevo cambiato Paese, che dovevo comprendere il nuovo ambiente dove ero arrivato. Un giorno o l’altro la mia ragazza la sposerò, su questo siamo d’accordo, ma che gliene importa alla gente se lo farò? Forse sono i preconcetti del calcio italiano, le paure degli allenatori, dei dirigenti. La cosa più divertente è che tutti mi consigliano continuamente di sposarmi. Qualche volta mi viene persino da ridere. Ma perché non si fanno gli affari loro? Comunque, forse questo è l’anno buono per portare Inge dal sindaco… ma dimmi: perché devo raccontare queste cose alla televisione?»
Briegel è la conferma che il calcio spesso è la spia, se non la fotografia, della diversità dell’essere della gente, pur praticando la stessa attività, pur essendo coinvolta in un fenomeno che è uguale in tutto il mondo. Ha detto quel sociologo: forse fra cento anni, per capire come eravamo, come ci proponevamo, in che modo ci esprimevamo, nulla sarà più esplicativo di uno stadio pieno, di una partita di calcio: i gesti, le urla, le felicità, le tristezze, gli exploit dei protagonisti e degli appassionati di questo gioco. Briegel non ha comunque finito le considerazioni sulle sorprese che gli ha causato la società italiana, dove è venuto un anno e mezzo fa a giocare e a vivere:
«Ogni tanto mi chiedo perché non tutti i calciatori abbiano la forza di andare dall’allenatore per chiedergli le ragioni delle cose che non approvano. Io invece lo faccio da tempo. Anche con Bagnoli. Io, se non sono d’accordo, vado e dico: questo non mi piace. E lui mi deve convincere, se no io non me ne vado. Perché Bagnoli ha capito che io soffro la partita e quindi non è giusto che debba sopportare anche l’incomprensione. Io te l’ho detto: qualche anno fa ero uno che proprio sentiva un dolore nello stomaco prima di affrontare una sfida importante. Poi, con gli anni, qualche cosa è cambiata. Se posso osare…».
«Osa, osa…», propongo a Briegei, divertito. Riprende il gigante tedesco: «Allora, se posso osare… voglio dire che è probabile che io soffra di meno perché sono diventato finalmente uomo, insomma più uomo. E una questione di maturità. Prima troppe cose ti sono sconosciute e non capisci bene dove sei capitato e che cosa vogliono da te. Poi, a poco a poco, incominci non solo a capire, ma a far valere te stesso, la tua personalità. Tutto diventa meno misterioso. È quindi probabile che la sofferenza si attenui per questo».
Briegel, al contrario di Rummenigge, una volta stanato dalla sua antica timidezza, è un tedesco inusuale, molto discreto.
NAZISMO
«Sai, oggi vivo diversamente e meglio. Credo che sia anche dovuto al fatto che prima di venire a Verona mi sono imposto una regola: caro Hans-Peter, adesso che vai nella città di Giulietta e Romeo, devi imparare a vivere diversamente, devi iniziare una nuova tappa della tua vita, insomma devi cercare di conciliare quello in cui credi con il nuovo che scoprirai. Sai, non sembra, ma io sono molto razionale…».
Un altro sorriso, un’altra prova di un ragazzo molto più fine dell’aspetto a volte brutale che ha in campo. C’è un momento della visita a casa sua che ricordo con particolare piacere. È quando abbiamo parlato della guerra e del nazismo. Briegel mi ha chiesto soltanto di rispondere nella sua lingua, per non essere frainteso nel suo italiano colorito ma elementare: «La guerra è un evento terribile, ringrazio Iddio per non avere mai vissuto questa esperienza, ma mio padre, che è stato prigioniero in Russia, me l’ha raccontata, senza risparmiarmi nessun passaggio crudele. Papà è stato prigioniero con mio zio. Certe sere a casa raccontavano le loro vicende ed era terribile. Io spero che il mondo, tante volte così distratto rispetto a guerre cosiddette minori come Iran e Iraq, si ricordi più spesso che ogni guerra vuol dire gente che muore, dolore e disperazione. Tu vuoi sapere anche come la mia generazione vive il ricordo del nazismo? Se vuoi che ti dica la verità, noi sentiamo di più questo ricordo quando andiamo all’estero. La gente fa di tutto per non farti dimenticare che soltanto quarant’anni fa, in Germania, ‘cera Hitler. Io so che come tedesco, devo vivere con questo passato, pesante e vergognoso, ma so anche che io vivo l’oggi. La Germania nella sua storia non è stata solo nazismo. È stata arte, scienza, invenzioni che hanno cambiato la vita dell’uomo. Io vivo anche con questo passato, un passato che mi aiuta a sperare che il nazismo non tornerà mai più. Ci è bastato vedere le immagini dei campi di sterminio in televisione per capire che, per quanto ci riguarda, quello è un delirio che noi delle nuove generazioni tedesche non accetteremmo più».
Briegel ha detto il suo parere senza nessuna ostentazione, tranquillamente, ma non posso dimenticare che spesso questo tipo di domanda, rivolta ad altri protagonisti del mondo del pallone, viene respinta con qualunquistiche ragioni: «Io mi occupo solo di sport». È per questo che credo che l’incontro con Briegel, nel lungo viaggio televisivo dedicato ai grandi campioni del calcio moderno, sarà una sorpresa per molti, specialmente per chi, per preconcetto o luogo comune, pensa che soltanto i giocatori bravi a fare i leader nelle squadre o i «numeri» col pallone, siano capaci di profondi pensieri e di belle parole. Briegel ha concesso alle nostre cineprese un pomeriggio intero.
SCHIAVITÙ
Lunedì 10 marzo. Briegel e Rummenigge volano con noi verso Francoforte. Li attende l’amichevole con la nazionale brasiliana. Briegel è stato l’eroe della domenica, con lo stupendo gol all’ultimo minuto, segnato alla Roma. Rummenigge legge con molta attenzione le cronache del lunedì. Briegel accetta di venire in cabina dal comandante, tifoso dell’Amburgo, ma per l’occasione orgoglioso del suo eroe tedesco che saluta con un annuncio ufficiale, accolto con qualche timido applauso dai compostissimi passeggeri. Briegel ci prende in giro: «Contenti eh, di andare in Germania?» ci provoca ridendo e fregandosi le mani. Poi aggiunge: «Che volete che facciamo a questi brasiliani?»
Qualcuno dei passeggeri viene e domanda della prossima partita. Briegel è sbrigativo: «Una normale partita amichevole. Sarà molto più dura in Messico. Questa è soltanto una passerella per farsi belli di fronte a milioni di telespettatori. Io purtroppo non ho il fisico del ruolo, ma un gol lo farò di sicuro».
E ride ancora. Rummenigge è stranamente meno laconico anzi, una volta tanto invece che distaccato, sembra romantico: «Quando torno in Germania, sento sempre un po’ di nostalgia. E poi in questo caso particolare, il Brasile è uno degli avversari tradizionali dove ogni volta uno cerca di dare il meglio di sé. È la mia ottantottesima partita, questa, e vorrei che coincidesse con una vittoria, perché con questi benedetti artisti brasiliani ho giocato tre volte: due volte ho perso e una ho pareggiato. L’ultima volta che ha vinto la Germania, sedici anni fa, io ero ancora un bambino».
Rummenigge sembra pensieroso. C’è qualcosa che non va e alla fine ce lo confessa: «Sai, è morta la nonna di mia moglie, l’altro ieri, una donna saggia a cui eravamo molto affezionati. Quando succedono queste cose, che sono tristi, ma normali nella vita di tutti, ecco, in queste situazioni ti accorgi di essere un uomo di successo ma schiavo di certi impegni. Mia moglie è partita sola e io invece sono su quest’aereo per andare a fare il mio dovere di professionista. Certo, sarebbe assurdo lamentarsi; ma un po’ di malinconia non è ingiustificata».
Viene il comandante a salutare. Rummenigge torna gentile, ma distaccato. Poi commenta: «Se devo dire la verità, non credevo mai, un giorno, di arrivare a questi vertici nel calcio. A sedici anni mi ero impiegato in banca, per aiutare la famiglia e per assicurarmi un futuro. Poi il calcio mi ha dato molto di più. Vorrei tanto ora concludere la mia carriera con una grande vittoria del Mundial. Per sentire di avere percorso fino in fondo un destino che non immaginavo e che invece mi ha fatto diventare quello che sono. Sai, quella sconfitta a Madrid nella finale con l’Italia, anche se facevamo finta di niente, per noi è stata una ferita indelebile».
CRITICA
Mercoledì 12 marzo. Allo stadio di Francoforte, un impianto bellissimo, i brasiliani, prima ancora di essere riusciti a pensare, sono trafitti da un gol di testa di Briegel. È destino che questa settimana il gigante tedesco debba essere protagonista delle nostre cronache. Poi i sudamericani che vengono dal caldo, si riprendono, si adattano al freddo tedesco, sfiorano il pareggio, prendono un altro gol nel finale per un errore inaspettato di Falcao. Briegel esce dal campo urlandomi: «Te l’avevo detto: questa settimana non perdóno nessuno». Noi ci siamo infilati negli spogliatoi di soppiatto, senza permessi.
Il calcio tedesco che spesso ha creduto di insegnare il modo di comportarsi a noi italiani, ci offre un’immagine mortificante della sua organizzazione. Ha ceduto lo sfruttamento economico delle partite della Nazionale a una società — la Montana Media — che, pur avendo incassato dalla Rai il pattuito per la teletrasmissione della partita, pretendeva ancora denaro per il nostro lavoro giornalistico. Una richiesta inusuale per non dire scorretta, mai imposta nemmeno negli Stati Uniti, dove il business dello spettacolo sportivo fa parte della vita stessa di quella società. Appollaiati su un balconcino riservato ai poliziotti di servizio allo stadio, abbiamo comunque filmato col teleobiettivo i protagonisti della partita, grazie all’aiuto di alcuni colleghi della televisione tedesca.
Nelle immagini registrate dalla nostre cineprese, Socrates e Falcão erano sembrati, almeno per tre quarti dell’incontro, due veri protagonisti. Ma considerati i commenti di alcuni colleghi italiani negli spogliatoi, sembra che le nostre cineprese abbiano filmato un’altra partita. Ci sorge il dubbio che il preconcetto e il partito preso siano il male più incancellabile del nostro mondo del calcio. Socrates e Falcão, essendo antipatici a Pontello e Viola, non avevano il diritto di giocare bene. Perché secondo le teorie interessate messe in giro, uno doveva essere ormai ubriaco e perso per il pallone, e l’altro zoppo e impossibilitato a continuare la carriera ad alto livello. Tutto falso, non era così. E la partita lo ha dimostrato. Ma evidentemente «doveva» essere così lo stesso.
L’indomani, unico conforto, leggeremo che, secondo Radice, Socrates è stato il migliore dei brasiliani nel primo tempo, perché tutto il gioco è passato dai suoi piedi, e Liedholm dirà che con un pilastro così e con l’intelligenza di Falcao al servizio di una condizione fisica che migliorerà ancora, il Brasile in Messico, dove il Mondiale si giocherà a duemila metri, non potrà che far bene. Rummenigge e Briegel, avversari in campo, saranno ancora più espliciti:
«I migliori del Brasile? Senza dubbio Socrates e Falcao, in particolare il dottore, che ha subito preso in mano la situazione, ha tolto la sua difesa dall’iniziale affanno, ha riorganizzato le cose fino al punto di farci correre tanti rischi. Sarà dura contro di loro al Mundial».
Siamo assaliti da un dubbio: Briegel e Rummenigge erano in campo a Francoforte? E se c’erano, come hanno fatto a vedere un’altra partita rispetto ad alcuni colleghi italiani?
Articolo apparso sul Guerin Sportivo – aprile 1986