Nel 2004 ebbi l’occasione di intervistarlo telefonicamente grazie ad amici comuni. Mi rispose dal suo appartamento di Buceo. Ad un tratto mi chiese scusa, c’era un’altra telefonata internazionale da Genova, dove Julio César Abbadie ha giocato tra il 1956 e il 1962. Lo volevano per dare il via alla partita che il Genoa doveva giocare contro l’Empoli e nella quale si poteva decretare il ritorno della squadra in Serie A. Anche i tifosi genoani lo chiamavano, facendogli sentire i loro applausi, e qualche giorno dopo un giornalista italiano era a casa sua ad intervistarlo. Tutto questo è un piccolo assaggio di ciò che Abbadie ha lasciato in Italia, dove continuano a ricordarlo quasi mezzo secolo dopo: “L’altro giorno al telefono mi hanno fatto emozionare. È molto forte e devo andare, non posso deluderli”.
La possibilità di giocare in Italia nacque dopo i Mondiali del 1954 in Svizzera, dove l’Uruguay arrivò quarto. Abbadie ha giocato tutte le partite tranne le ultime due, perché era infortunato. Gli esperti dell’epoca dicono che quella squadra uruguaiana era la migliore di tutti i tempi, superando anche quella del 1950. Gli italiani lo videro lì, anche se prima un argentino, lo stesso che portò Schiaffino in Italia, avrebbe voluto trasferirlo al Milan, ma il passaggio venne troncato. L’anno successivo, tramite un amico che spesso si recava in Italia, andò a buon fine il contratto con il Genoa. “Era una squadra di metà classifica, ma molto amata. Ho fatto molto bene, mi sono sposato prima di partire e lì sono nati i miei primi due figli, Juan Daniel e Beatriz”.
Abbadie avrebbe potuto diventare campione del mondo nel 1950 se avesse accettato l’invito di Juan López, l’allenatore della Celeste dell’epoca. Era riserva nel famoso Peñarol del ’49 e un pomeriggio Juan López lo chiamò dicendogli che gli mancava un giocatore per l’allenamento della Nazionale: “Mi ha chiesto di andare a dargli una mano e io non l’ho fatto”. Probabilmente a causa della sua giovinezza, aveva solo 20 anni, si sentiva come se lo stessero usando. Poi ha scoperto che Juan López non si era espresso bene e che avrebbe avuto la possibilità di andare ai Mondiali in Brasile. “Dato che non sono andato, ha chiamato Omar Míguez, avrei potuto essere campione del mondo! Se López mi avesse detto ‘ho bisogno di te’ sarebbe stato diverso, oggi con l’esperienza della vita, anche se l’Uruguay non fosse poi diventato campione, io sarei andato a quell’allenamento”.
Abbadie è nato a San Ramón, ma dieci giorni dopo la sua famiglia si trasferì a Montevideo per motivi di lavoro di suo padre, che faceva il panettiere. Ha vissuto i suoi primi dieci anni a Colón dove ricorda ancora, come se fosse ieri, quando aveva solo sei anni. Guardò passare il dirigibile Graf Zeppelin finché non si perse all’orizzonte. “Mia moglie non mi crede, ma ricordo chiaramente. I vicini uscirono tutti e non si parlò d’altro. È rimasto con me per sempre”.
Ma i suoi migliori ricordi d’infanzia appartengono a Pan de Azúcar, a Maldonado, dove la famiglia si stabilì quando aveva dieci anni. Era il terzo di quattro figli e fin da piccolo mostrò la sua inclinazione per lo sport. Suo fratello si lamentava perché era molto abile e vinceva tutto ciò a cui giocavano: trottola, bocce, calcio e basket. Frequentò la scuola a Pan de Azúcar e il liceo a San Carlos: “Non ho mai avuto molta propensione per gli studi, ma lo facevo per obbligo. Nella condotta però ero ottimo. Ero sempre tranquillo e molto rispettoso”.
Ha iniziato a giocare per l’Atenas de Pan de Azúcar all’età di dodici anni, ma ha militato anche nel Liverpool e nel Club Pan de Azúcar, oltre a qualche apparizione nel Club Deportivo Maldonado. “Ho dei ricordi bellissimi, erano anni molto felici, senza problemi, in un paese sano. Adesso la chiamano città, ma per me è sempre il paese. Ci passo ancora. Vado al cimitero dove ci sono mio padre e mio fratello e rivedo gli amici di allora. Ci sono nuove persone, ma alcune restano.
“El Pardo” sempre con la maglia del Peñarol
In un’occasione, la Tercera Especial del Nacional andò al Pan de Azúcar e Cabrerita, lo videro e lo invitarono ad andare a Montevideo per fare un provino. “Siamo andati con mio fratello Ruben, allenamento e niente di più. In realtà abbiamo accettato perché era una squadra della capitale, ma eravamo peñarolenses. Da bambino piangevo quando il Peñarol perdeva“. Quando Edmundo Núñez, un peñarolense di Sugarloaf, ha scoperto che era andato a provare per il Nacional, lo ha portato subito al Peñarol. “Mi ha accompagnato lui stesso a Las Acacias, mi sono allenato e mi hanno subito condotto alla sede di Calle Maldonado per firmare. Quando seppe sulla stampa che il Peñarol mi aveva assunto, il Nacional andò a cercare mio fratello Ruben. Per fortuna non siamo mai arrivati ad affrontarci, perché eravamo molto legati. Anche a quel tempo non ci vedevamo molto perché io abitavo a casa di mia nonna a Colón e lui abitava in una pensione che aveva il Nacional”.
Cominciò nella Tercera Especial del Peñarol, ma l’ungherese Hirsch che dirigeva la Primera aveva l’abitudine di andare a vedere gli inferiori e lo promosse come riserva. È stato il tecnico europeo a farlo giocare come numero 7, visto che per tutta la vita aveva giocato come numero 8 o 10. “Non mi piaceva giocare come numero 7, ma ho giocato. E poi mi sono abituato”.
In quel primo periodo trascorse otto anni nel club Aurinegro, dal ‘48 al ‘56. E dopo il Genoa e il Lecco in Italia tornò al Peñarol, dal ‘62 al ‘69. “Ho giocato fino a 39 anni. No, posso lamentarmi. Col passare del tempo inizi a dare valore alle cose e se mi guardo indietro oggi vedo che tutto quello che mi è successo è stato positivo, pensavo di essere intelligente e non davo importanza alle cose negative. Non ho avuto nemici ed è per questo che posso dormire sonni tranquilli”.
Julio César Abbadie nel Genoa
Non tiene il conto, ma stima di essere stato campione uruguaiano con il Peñarol una decina di volte. Afferma che i Clasicos sono indimenticabili, ma senza dubbio la cosa più importante della sua carriera sono state le partite contro il River Plate in Copa Libertadores e contro il Real Madrid in Intercontinentale nel 1966. “Questo è rimasto scolpito in tutti noi. Eravamo una squadra molto organizzata con una forza emotiva molto importante. La mentalità è fondamentale nel calcio, per questo siamo riusciti a ribaltare quella finale con il River dopo aver perso 2 a 0, per finire vincendo 4 a 2. All’intervallo ci siamo detti che perdevamo per due nostri errori, ma loro non erano superiori a noi”.
Mentre erano andati a giocare alcune partite in Cile, lasciarono presto l’albergo di Santiago per percorrere alcuni chilometri in autobus per raggiungere una città dell’entroterra dove dovevano giocare un’altra partita. Allora “Tito” Néstor Gonçalves cominciò a controllare come un pazzo la sua borsa e si rese conto di aver dimenticato le scarpe a Santiago. L’allenatore a quel tempo era Béla Guttmann, che era molto esigente. “Si sarebbe arrabbiato moltissimo se avesse saputo che “Tito” aveva dimenticato le scarpe, che erano il suo strumento di lavoro. Cominciò a girare per l’autobus chiedendo a tutti i compagni se avevano un paio di scarpe in più. Nessuno ne aveva, tranne me: ‘Pardo, ne hai un altro paio?’. ‘Sì’, risposi, ‘me li puoi prestare?’, chiese disperatamente. ‘No’, gli ho detto per farlo soffrire. Ha insistito per tutta la trasferta e nello spogliatoio, quando già ci stavamo cambiando, si è addirittura inginocchiato davanti a me. Ovviamente gliele prestai, ma ancora oggi ‘Tito’ ricorda come lo feci soffrire quella volta.”…
Ammette che il calcio uruguaiano oggi lo rende triste e ha usato quella parola perché essendo anche lui giocatore non gli piace usare espressioni più forti. “Il problema è che hanno cambiato il calcio uruguaiano. L’altro giorno l’Uruguay ha vinto, ma ha giocato malissimo. Quello che ha giocato come faceva prima l’Uruguay, ammassandosi dietro, è stato il Paraguay. Se chiedi a un attaccante quale squadra preferisce affrontare, ti risponderà sempre quella che interpreta una partita aperta, noi ci chiudevamo molto bene in difesa, il Real Madrid nel ’66 non riusciva ad entrare per via dell’ordine che avevamo. Fossati una volta mi disse che non aveva mai visto una squadra impostata bene come avevamo fatto in quella partita. Vincere non significa solo attaccare.
Julio Abbadie è morto a Montevideo il 16 luglio 2014.
Mario Bocchio