La terribile morte del figlio, la scelta di sterilizzarsi e il furto della bara in un libro Le chiama “ferite nell’anima impossibili da rimarginare” nel libro scritto con lo psichiatra napoletano Ignazio Senatore. “Il guerriero”, pubblicato da Absolutely Free, è la storia di Salvatore Bagni, l’eroe del primo scudetto del Napoli e l’uomo che ha dovuto lottare contro le violenze della vita, come quella del 3 ottobre 1992, quando morì il figlio Raffaele, tre anni ancora da compiere, decapitato dallo scoppio dell’airbag in auto. “Questa cosa non l’ho mai rivelata, né l’ho scritta nel libro: la dico ora”. L’ex giocatore ha alzato un po’ il tono della voce per rispondere alla domanda del giornalista Valter De Maggio. “Se ho mai pensato a un altro figlio dopo la sua morte? Non ci sarebbe stato nulla e niente che avrebbe potuto sostituirlo, io e mia moglie Letizia ne eravamo convinti. E così presi una decisione”.
Pochi giorni dopo il dramma, il ricovero in una clinica di Ravenna per sottoporsi a un intervento di sterilizzazione. “All’epoca non era neanche legale, però fui determinatissimo: non avrei voluto altri figli neanche per errore. Non l’ho raccontato nel libro, lo rivelo qui a Napoli perché non ho problemi a parlare di quella storia. Io e Letizia affrontammo lo stesso dolore in due modi differenti. Io l’ho convinta a vivere la vita”.
Il dramma nel dramma fu quello che avvenne quando la salma di Raffaele fu trafugata dal cimitero. “La foto della bara lasciata sul parabrezza dell’auto in un giorno di nebbia, sembrò tutto così assurdo. Un mese con i carabinieri in casa, aspettando una telefonata. Vi fu solo silenzio. Io penso che Raffaele ci sia, ogni giorno, il problema non è quel corpo che non è più al cimitero perché io ho fede. Sono trascorsi tanti anni, ancora spero che un giorno qualcuno di quei rapitori, perché saranno stati almeno quattro per mettere a segno quella cosa orribile, dica cosa accadde”, ha spiegato Bagni, 65 anni, il sorriso e il cuore di quel bambino “mezzo emiliano e mezzo siciliano” che sognava di giocare a pallone, non di diventare calciatore professionista. “Dopo aver vinto a Napoli con Maradona mi divertii anche con le squadre amatoriali dei miei amici d’infanzia segnando tanti gol”. Alla presentazione del libro c’era anche il vecchio segretario di Maradona, Gianni Aiello, quella che fu un’ombra buona per il campione nei sette anni a Napoli. “A casa mia c’era sempre una stanza libera per Diego. Vincemmo lo scudetto grazie a lui, alla sua classe e al coraggio che trasmetteva a tutti noi”.
Bagni ricorda sempre le sue origini tra la Sicilia – la mamma è di Gela – e la Correggio dove ha vissuto fino ai 18 anni e dove frequentava la stessa parrocchia dello scrittore Vittorio Tondelli. Un uomo figlio di un operaio che amava giocare a calcio e che ha vinto la timidezza nel rettangolo di gioco dove è cambiato in meglio dopo i ventiquattro anni. Il Carpi, il Perugia, poi l’Inter di Fraizzoli dove gioca ala destra, ma Bagni vedeva la porta. Rino Marchesi (il Lord) lo inventa mediano centrale e dopo il bisticcio con Pellegrini approda al Napoli nel 1984-‘85 e finisce terzo in campionato.
Poi l’anno del primo scudetto: “Quando abbiamo capito che lo avremmo vinto? Dopo i rigori con il Tolosa che sbagliammo io e Diego. Poi andammo con regolarità avanti vincendo scudetto e Coppa Italia. Allora bisognava giocare una decina di partire per vincerla”.
Il rapporto con Maradona: “Non è stato un campione nella sua vita? Bisognerebbe conoscerlo per giudicare. In realtà lui si allenava più degli altri, ma amava fare le partitelle, Si allenava giocando. La sua vita fuori dal campo? Noi della droga non sapevamo niente. Lui comunque è stato salvato dall’affetto della gente, perché ha sempre amato stare con gli altri. In campo mi divertivo e menavo calci: ma ne ho preso pochi io perché gli avversari mi rispettavano”.
Questo è stato Salvatore Bagni, rappresentante di un altro calcio. Che sicuramente non tornerà mai più.